Una politica estera che dava all’Italia un ruolo di autonomia e di indipendenza
di Cesare Sacchetti
Quando la Fiat 130 di Aldo Moro raggiunge l’incrocio di via Fani il 16 marzo 1978 l’Italia cambia il corso della sua storia. L’eccidio di via Fani che vede massacrati i 5 agenti della scorta del Presidente della Democrazia Cristiana scuotono l’Italia della fine degli anni’70 e si raggiunge l’apogeo della stagione degli attentati politici. Gli anni di piombo sono la stagione della resa dei conti tra rossi e neri, tra opposte fazioni che mettono a dura prova la tenuta fragile della giovane democrazia italiana. Il sequestro di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse riesce nell’impresa di dare a un gruppo terroristico insurrezionalista la facoltà di poter influenzare l’agenda del governo e mette a dura prova i fondamenti costituzionali, già da allora messi in discussione da diversi gruppi politici in nome dell’emergenzialità.
Per comprendere meglio la portata di tale evento occorre prima di tutto considerare la figura di Aldo Moro, già ministro degli esteri nel 1974, e considerato una delle menti più raffinate della DC. Il suo eloquio, la sua capacità di intrattenere l’uditorio con ragionamenti compositi ne fanno uno degli oratori più brillanti e colti della politica italiana di allora. Ancora oggi molti ricordano la sua celebre espressione “convergenze parallele” che nei contesti internazionali metteva a dura prova i traduttori costretti a fare i conti con l’oratoria morotea. Si narra che spesso gli stessi traduttori comunicavano in cuffia agli ospiti internazionali l’impossibilità di tradurre le espressioni del On. Moro. Questo da la cifra del contenuto di una scuola politica che negli anni è andata perduta, sostituita da avventurieri e terze file delle carcasse dei partiti di un tempo, dei quali ancora oggi nonostante l’incredulità di molti, si sente una malinconica nostalgia.
Non solo nostalgia di uno stile, ma mancanza della capacità di saper intraprendere e decifrare i destini di un Paese alla ricerca della sua sovranità perduta. Se si guarda indietro alla politica internazionale di Moro è possibile vedere un tentativo di difesa della sovranità nazionale e il tentativo di restituire all’Italia un ruolo autonomo negli affari esteri. E’ questo il motivo per cui Washington non fece mistero di considerarlo un serio pericolo per la politica atlantista nell’Europa Occidentale. I suoi tentativi di legittimare il ruolo del Partito Comunista Italiano attraverso il coinvolgimento in un governo di solidarietà nazionale, il suo rifiuto di mettere a disposizione le basi italiane per inviare rifornimenti ad Israele impegnato nel conflitto in Medio Oriente, ne fanno un personaggio inviso e detestato nelle stanze della Casa Bianca. Henry Kissinger, tra i membri più influenti del gruppo Bilderberg, lo vedeva come fumo negli occhi e in ogni occasione di colloquio con Moro non faceva nulla per nascondere il suo disprezzo nei confronti dello statista pugliese, la cui originale politica internazionale dava all’Italia un ruolo di autonomia e di indipendenza.
Sono gli anni del colpo di Stato in Cile e gli USA non nascondono, al contrario rivendicano, il loro intervento nella sovranità degli altri stati per impedire che salgano al potere formazioni politiche che sono considerate ostili e d’intralcio agli interessi americani nel mondo come spiegato chiaramente dal presidente Gerald Ford: ”abbiamo fatto ciò che gli Stati Uniti fanno per difendere i loro interessi all’estero. Ci rimproverate per il Cile. Ci rimprovereste ancora più duramente se non facessimo nulla per impedire l’arrivo dei comunisti al potere in Italia o in altri Paesi dell’occidente europeo.” Ecco perché Moro non poteva rimanere in nessun caso nell’epicentro della politica italiana. Non poteva continuare ulteriormente nel suo intento di restituire una più piena sovranità all’Italia, e il suo progetto doveva fallire.
Quando l’allora segretario di Stato Kissinger lo incontrò negli USA in occasione del viaggio ufficiale della delegazione italiana, i due hanno un colloquio che evidenzia la distanza incolmabile tra le loro posizioni. Kissinger minaccia esplicitamente Moro, e gli intima di smetterla nel tentativo di perseguire il suo piano politico: ”Onorevole, lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere”. Una minaccia che scuoterà profondamente Moro, che da ritorno nel suo viaggio negli USA manifesterà al suo collaboratore Corrado Guerzoni, l’intenzione di ritirarsi per alcuni anni dalla vita politica, in segno di manifesta protesta contro quell’ingerenza inaccettabile che il segretario USA ha espresso. Nei 55 giorni del sequestro, tutta la politica italiana apparirà compatta nel sostenere il fronte della fermezza che condannerà lo statista della Dc alla morte inevitabile.
E’ interessante notare alcuni meccanismi che nel corso del tempo sono rimasti immutati, quando si pensa alle strategie della tensione indotte, necessarie per poter traumatizzare l’opinione pubblica che altrimenti non avrebbe accettato quel determinato epilogo. All’epoca le Brigate Rosse non rappresentavano un particolare pericolo per la democrazia italiana, né tantomeno sembravano avere le competenze e le tecnicalità per mettere a segno un attentato del genere. Gli attentatori, quel giorno del 16 marzo, sembrano muoversi con professionalità militare e assaltano la Fiat 130 dell’On. Moro sparando 91 colpi e senza mai ferire il presidente. Un primo interrogativo sorge già sulla spettacolarizzazione dell’agguato, che non appariva necessario se si considera che il presidente si recava tutte le mattine a fare una passeggiata al Foro Italico accompagnato dal solo Maresciallo Leonardi, membro della sua scorta. Perché invece si preferì prelevare l’On. Moro in via Fani? Appare anche singolare che i brigatisti sapessero esattamente come e quando prelevare il presidente della Dc, senza dimenticare che erano anche a conoscenza del contenuto delle cinque borse che l’Onorevole portava con sé, visto che lasciano nella vettura due delle borse meno importanti per il loro contenuto, e prelevano quelle con i documenti riservatissimi.
E l’incredibile coincidenza che vede il giorno dell’agguato, passeggiare il Colonnello Guglielmi appartenente al Sismi (il servizio segreto militare) a pochi passi da via Fani, in via Stresa. Il Colonnello si giustificherà dicendo che stava andando a pranzo da un amico, anche se alle 9 del mattino. Non c’è sufficiente spazio per enumerare le incredibili incongruenze della versione ufficiale del caso Moro che sono state spiegate e argomentate nelle memorabili opere di Sergio Flamigni come la “La tela del ragno” e “Doveva morire” del giudice Ferdinando Imposimato. Se si comprende il caso Moro, si comprendono i successivi 30 anni della storia italiana. L’Italia non poteva e non doveva diventare uno stato pienamente sovrano. Se esisteva un piano per soggiogare le nazioni europee sotto un governo sovranazionale, questo è stato certamente scritto anche prevedendo l’utilizzo di infiltrazione di gruppi terroristici attraverso gli apparati di sicurezza, spesso americani, negli affari interni degli stati occidentali.
E’ qui che si colloca la famigerata zona grigia, alla quale fa riferimento Kissinger, che consente di sovvertire un governo ostile e instaurare al suo posto un governo eterodiretto più accondiscendente agli interessi della superpotenza americana. Le Brigate Rosse passano da piccolo gruppo che non ricorreva ad azioni cruente - come volevano i suoi originari fondatori Renato Curcio, Alberto Franceschini e Mara Cagol che nel convegno di Pecorile dell’agosto 1970 erigono i pilastri dell’organizzazione – a gruppo paramilitare che dopo gli arresti di Franceschini e Curcio avvenuti l’8 settembre 1974 a Parma passerà la sua leadership a Mario Moretti, la sfinge delle Br, scampato miracolosamente alla retata di Parma e rappresentante dell’ala più dura e cruenta del gruppo.
Da quel momento le Br iniziano a spargere sangue e si arriva fino alla escalation del 16 marzo 1978, con il colpo del sequestro Moro. Da sempre quindi vediamo la necessità di costruire un nemico fittizio o reale che esso sia, nutrirlo e farlo prosperare, e stroncarlo per poi arrivare ad eseguire l’agenda delle elite sovranazionali. Sarà lo stesso Franceschini a notare che se realmente si fossero voluto stroncare le BR, lo si sarebbe potuto già fare nel 1972, anno in cui ci furono numerosi arresti, mentre invece si preferì non troncare del tutto l’organizzazione. Non solo appare inverosimile che un gruppo terrorista per quanto ben preparato e addestrato possa mettere in difficoltà gli apparati di sicurezza di uno Stato che ha a disposizione mezzi e uomini ben più numerosi, ma lo è ancora di più nel contesto contemporaneo se si pensa alle tecnologie a disposizione dei moderni stati.
I mandanti reali del sequestro Moro sono gli stessi che hanno voluto impedire all’Italia di divenire un Paese pienamente indipendente e libero di decidere il suo destino. Dal 1945, dopo la fine della seconda guerra mondiale, siamo un Paese a sovranità limitata che ancora ha sul suo territorio basi USA, nonostante la guerra fredda sia finita da un pezzo. Dal 1992, dopo Maastricht, non siamo più un Paese ma una fettina dei mercati in pasto allo spread e nelle mani degli speculatori internazionali che hanno deciso di distruggere le nazioni per sostituirle a spazi comuni, privi di regole e dominati dalla legge del più forte. Le democrazie non esistono più, sono state annullate da dei trattati internazionali scritti sotto dettatura degli appartenenti al gruppo Bilderberg, della Commissione Trilaterale e degli altri think tank neoliberisti che diffondono il verbo del libero mercato. Ecco perché uomini come Aldo Moro, ancora oggi, rappresentano un pericolo inaccettabile per le gerarchie sovranazionali le quali però non hanno tenuto conto che l’uomo non può sottostare in eterno nella condizione di sottomissione. Per chi ancora adesso non accetta questo progetto di dominio, la lezione di Moro rimane fondamentale per comprendere la malvagità dei poteri sovranazionali.
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