UNA CITTÀ n. 202 / 2013 Aprile
Intervista a Salvatore Capone
realizzata da Barbara Bertoncin e Pinuccia Cazzaniga
CUFFIE E TERMINALE
Da lavoro precario per eccellenza, svolto da universitari e neomamme, ora, soprattutto al sud, quello del call center è diventato “il” lavoro; la differenza tra “inbound” e “outbound” e la necessità, per le aziende, per star dietro ai picchi nei volumi di traffico, di ricorrere pressoché esclusivamente a contratti part-time. Intervista a Salvatore Capone.
Salvatore Capone è sindacalista della Fistel Cisl, vive e lavora a Roma.
Da molti anni segui i lavoratori dei call center e tu stesso hai svolto questo lavoro. Volevamo capire com’è cambiata la situazione.
Io ho lavorato al servizio 12 elenco abbonati, parliamo dell’88, e poi al 187 commerciale quando è nata Telecom Italia. Rispetto al modo di lavorare, il cambiamento principale riguarda la flessibilità della prestazione. All’epoca, il cliente ti chiamava per telefono e tu lavoravi dal lunedì al venerdì, ma alle quattro chiudevi. Oggi non solo questo servizio viene offerto H24 ma è multicanale, nel senso che puoi accedere ai servizi di informazione e di supporto tecnico anche attraverso la posta elettronica, internet, le chat. Almaviva, Call & Call, così come altre aziende del settore, oggi mettono in campo diverse modalità di risposta. Dipende dalla tipologia della commessa: per esempio, se tu chiami il servizio tecnico hai bisogno che dall’altra parte ci sia qualcuno che ti risponde immediatamente. Se è un servizio commerciale, puoi chiedere informazioni via mail e dall’altra parte ti possono rispondere anche il giorno dopo.
Quindi intanto quando parliamo di call center non dobbiamo più pensare solo all’operatore telefonico. Tutte le aziende si stanno attrezzando per intercettare i cosiddetti volumi di chiamate con modalità alternative che tra l’altro hanno costi enormemente più bassi per cui riducono ulteriormente il costo del lavoro. Anche questo va sottolineato: queste sono aziende "labour-intensive” dove il costo dell’attività è per l’80% costo del lavoro perché quello che resta è il capannone, le cuffiette e la rete per portarti le chiamate. Non c’è la fabbrica, non ci sono le macchine. La competizione avviene sul costo del lavoro. Dovrebbe anche svolgersi sulla qualità del servizio, ma in una fase come questa i committenti, soprattutto in area telco, delle telecomunicazioni, che sono quelli che stanno soffrendo di più, fanno pressione prevalentemente sul prezzo.
Quand’è che le grandi aziende hanno cominciato a decentralizzare i call center, dandoli in outsourcing a ditte esterne?
È un processo lungo che è durato anni. Volendogli dare una data d’inizio, possiamo mettere il 2000, quando è nato il contratto di settore delle telecomunicazioni (Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro per le Imprese esercenti servizi di telecomunicazione) cui via via hanno aderito le aziende del settore, che sono le licenziatarie del servizio, quindi Tim, Wind, Vodafone, 3G, ecc. Con quel contratto è stata fatta una scommessa nel senso che il contratto delle telecomunicazioni è diventato anche il contratto dei call center. Abbiamo fatto la scommessa di tenere assieme l’intera filiera dei committenti e delle aziende che svolgono il servizio. Moltissimi call center hanno trovato conveniente aderire a questo contratto. Con il tempo questo si è rivelato anche un elemento di sofferenza perché tiene dentro aziende con capacità economiche molto diverse. Qualche contraddizione rimane anche se, soprattutto con la stipula dell’ultimo contratto, siamo riusciti a tenere assieme le istanze di entrambi i mondi.
Nell’immaginario, quello del call center è il lavoro precario per eccellenza. È ancora così?
Qui bisogna fare una precisazione importante. Prima tutte le attività di call center venivano svolte da lavoratori prima co.co.co e poi co.co.pro, quindi da lavoratori precari. Durante il governo Prodi, nel 2006, il ministro Damiano ha emanato una prima e una seconda circolare alla quale ha fatto seguito una circolare Sacconi durante il governo Berlusconi, regolata ulteriormente dal 24 bis della legge Fornero.
Tutta questa letteratura normativa sostanzialmente ha introdotto una divisione di questo mestiere in due grandi branche: l’inbound e l’outbound. La branca dell’inbound è la prestazione del lavoratore che riceve la chiamata del cliente. Tu chiami il 190 per avere informazioni sul tuo telefono o sulla promozione e ti risponde un operatore. Quella è una chiamata inbound. La circolare Damiano e successive hanno tutte certificato che chi fa questo mestiere non può che essere un lavoratore subordinato quindi con un contratto collettivo nazionale. Pertanto da quel momento si è proceduto alle stabilizzazioni. All’epoca io lavoravo sulla struttura del Lazio e ho fatto accordi per migliaia di lavoratori. Non esagero: migliaia di lavoratori passarono da precari a subordinati. Quella circolare e le successive hanno però lasciato aperte le maglie per l’utilizzo di lavoratori precari nell’attività outbound, che è quella invece dell’operatore che fa le telefonate. Il presupposto, semplificando, è che l’attività outbound è autonoma perché sono io che gestisco il rapporto con il cliente, sono io che chiamo la persona a casa e le chiedo se vuole comprare il frigorifero, ecc. Ecco allora che l’attività dell’operatore outbound può essere assimilata a un co.co.pro, cioè a un lavoratore autonomo parasubordinato che viene pagato a risultato, a obiettivo.
Questo ha prodotto una discriminante nel settore. Oggi le attività inbound sono illegali se non sono fatte con lavoratori con contratto subordinato, mentre per le attività outbound dipende dalla prestazione: se la prestazione ha un orario rigido di entrata e uscita, un rapporto gerarchico definito, si configura più come attività subordinata; se invece è lasciata alla libera e autonoma valutazione dell’operatore che decide quando venire a lavorare, quante chiamate fare, allora è corretto configurarla come contratto a progetto.
Chi fa questo lavoro? Sono solo universitari?
Non è più così. Per l’attività inbound, oggi quello del call center, soprattutto nel sud, ma anche al nord, è diventato "il” lavoro. Certo, per molti è cominciato così: erano studenti o mamme. Apro una parentesi: questo è un mestiere dove il part-time è l’articolazione oraria preferita dalle aziende. Allora una mamma che vuole conciliare il tempo di vita e quello di lavoro, oppure lo studente che deve contemporaneamente preparare degli esami, trovano questa formula particolarmente conveniente. E tuttavia se per anni questi sono stati i soggetti tipici di questo lavoro, oggi ti assicuro che non è più così: soprattutto al sud ci sono famiglie che ci vivono, con magari moglie e marito che lavorano nello stesso call center, che casomai si sono conosciuti lì. Qualche anno fa, un’azienda, mi sembra Teleperformance, ci dichiarò che a Taranto aveva un tasso di natalità altissimo. Erano tutti ragazzi, forse pensavano di rimanerci solo per un po’ e invece poi...
I call center aprono soprattutto al Sud?
La legislazione italiana prevede alcune norme di incentivo come la 407/90, in base alla quale spetta un’agevolazione contributiva per i primi 36 mesi per le aziende che aprono al sud. Questo ha favorito l’insediamento dei call center perché trovano una maggior leva fiscale. Ma poi c’è anche il diverso costo della vita: a Bari o a Lecce con uno stipendio modesto ci campi, a Milano no.
Com’è organizzato il lavoro?
Dipende dalle commesse. Tendenzialmente l’orario è H24, nel senso che la prestazione va garantita sette giorni su sette, con dei turni. Se lavori su un servizio business, quindi rivolto alle aziende, probabilmente non ti chiederanno di lavorare la domenica però magari il sabato mattina sì. Se lavori su un servizio retail, di supporto al telefono di casa, per cui devi rispondere anche alla nonna che vive in montagna e che ti chiama alle otto di domenica, allora lavori sempre. Dipende dal cliente. Nelle telecomunicazioni rispondono sempre. Con le banche è diverso, anche con l’energia o le assicurazioni.
Chi si affida a servizi di call center?
Ormai tutti. Si va dai servizi di Tlc (telecomunicazioni) alle banche, all’Inps, all’Inail, alle Ferrovie dello Stato, all’energia... Non c’è più nessuno che lo fa in house. Anche Telecom, che aveva il call center interno, gradualmente lo sta dismettendo; in pratica non fa turnover su quel pezzo di azienda e man mano dà fuori le attività. Ha anche costituito un’azienda esterna, ma controllata dal gruppo Telecom, Telecontact center, che le permette di fornire lo stesso servizio a costi minori.
Dicevi che le aziende vogliono il part-time. Perché?
Perché i volumi di traffico sono rappresentati da due grandi gobbe: c’è un picco intorno a mezzogiorno e poi scende e poi c’è un altro picco che risale intorno alle quattro del pomeriggio e poi ridiscende la sera. Un lavoratore a otto ore sarebbe collocato per un pezzo sul picco e per un pezzo in orari in cui non c’è traffico. Se tu invece hai dei part-time li puoi usare scaglionati collocandoli a ridosso dei picchi. Questo è decisivo perché essendo questo, come dicevo, un settore labour-intensive, dove la competizione avviene prevalentemente sul costo del lavoro, bisogna ottimizzare il lavoro delle persone. Non è concepibile che ci sia qualcuno che è sul posto di lavoro e non riceve chiamate, o viceversa che ci siano delle chiamate a cui non si risponde.
Un contratto a part-time è particolarmente rigido sugli orari, mentre un call center ha bisogno di grande flessibilità. Come stanno assieme le due cose?
I part-time hanno una rigidità sull’articolazione oraria normato dalla legge; quando tu vieni assunto con un contratto in part-time sostanzialmente sottoscrivi una lettera in cui concordi con l’azienda la prestazione oraria.
Questa rigidità ha una spiegazione. La filosofia del part-time in origine era di poterlo conciliare con le esigenze di vita, di studio, o anche con un altro lavoro. Ora, se dovevi andare a prendere tuo figlio o ancora più se dovevi andare a fare un altro lavoro avevi bisogno di un’articolazione oraria certa, ti doveva essere garantito che la tua prestazione sarebbe stata sempre e solo dalle otto alle dodici, per esempio. Questo retaggio oggi cozza col fatto che in realtà per molti, come dicevo, il part-time è "il” lavoro, non è un’integrazione o una situazione temporanea. E qui c’è una contraddizione tra ciò che chiedono le aziende, che vorrebbero tutti a part-time, e ciò che chiediamo noi come sindacato, cioè di aumentare l’orario di lavoro (e quindi il salario) perché questo risponde all’esigenza di metter su una famiglia o comunque di avere una prospettiva di vita dignitosa, ma questo è un altro discorso.
Cosa succedeva prima? Che una volta concordata con l’azienda l’articolazione oraria, se l’azienda aveva bisogno di spostare l’orario dalla fascia 8-12 a quella 14-18, bisognava rifare il contratto, andare all’Ufficio provinciale del lavoro e depositare una nuova lettera, che tra l’altro doveva essere condivisa dal lavoratore.
Questo all’inizio, quando le aziende erano in una fase espansiva, non creava particolari problemi. Considera che un’azienda come Almaviva aveva superato le 10.000 persone. Se tu pensi che Vodafone conta 7-8000 dipendenti, Wind circa 7000, H3g, il quarto gestore, ne conta 2000, beh, tu capisci che parliamo di aziende con un peso occupazionale importante.
Ecco, oggi non è più così. In questa fase storica, le aziende, forti anche di un potere di ricatto sull’occupazione, ti dicono: "Va bene, io ti assumo part-time a quattro ore però in un arco orario più ampio”. Cioè tu vieni assunto a venti ore settimanali (quindi quattro ore per cinque giorni) con una prestazione che però potrai fornire dal lunedì alla domenica e dalle otto alle venti. A quel punto l’azienda può utilizzarti tre volte alla mattina, due volte al pomeriggio. In pratica, tu permetti all’azienda di farti fare le quattro ore in qualunque articolazione oraria nella fascia 8-20.
Ci sono anche le "clausole elastiche”. Cosa sono? Il lavoratore ha una matrice dove c’è scritto che il lunedì copre la fascia 8-12, il martedì quella 12-16, il mercoledì quella 16-20 ecc. Poi succede che il committente mi comunica che mercoledì invece di arrivarmi 100.000 chiamate la mattina e 50.000 al pomeriggio me ne arrivano 120.000 alla mattina... Insomma, succede l’imprevisto. Allora cinque giorni prima io azienda ti dico che anziché quella 16-20 mi coprirai la fascia 8-12. In pratica, le clausole elastiche prevedono la modificazione dell’articolazione oraria, con una maggiorazione salariale per le ore non coincidenti con la matrice. La legge Fornero, per i lavoratori che hanno dato il consenso per la fruizione di queste clausole, ha introdotto la "clausola di ripensamento”, cioè la possibilità, in alcune casistiche, di togliere il consenso a queste clausole. È una tutela per il lavoratore. Poi c’è l’uso del lavoro "supplementare”, che è la prestazione di lavoro svolta oltre l’orario giornaliero ma entro il limite del tempo pieno; oltre le otto ore si parla di straordinario vero. Nel contratto nuovo il tempo supplementare è trattato come l’orario base.
Il problema in questo settore è sempre quello di riuscire a gestire l’imprevisto...
Esattamente, cioè un aumento o una diminuzione non programmati dei volumi. Faccio un esempio: se lavori al 187 tecnico in Sardegna e viene un acquazzone ad Alghero, e magari la rete è poco manutenuta, le cento chiamate medie giornaliere diventano duemila. Questo scombussola tutto e l’unica cosa che l’azienda può fare è dire al lavoratore: "Resta qui”. In realtà ora sta succedendo esattamente il contrario, cioè l’azienda ha bisogno di lasciare a casa.
Su questo sono stati messi a disposizione alcuni strumenti di flessibilità, come la fruizione dei Rol (i cosiddetti "permessi”) al 30% in capo alle aziende. Funziona così: se l’azienda oggi pensava di ricevere 2000 chiamate e a un certo punto si accorge che ne sta ricevendo 1500, potendo disporre di una parte dei tuoi permessi, ti chiede di andare a casa.
Qual è invece lo stipendio di un operatore di call center inbound?
Si entra al secondo livello. Le retribuzioni sono quelle del contratto nazionale. Parliamo, in entrata, di circa 600 euro per un part-time di quattro ore. Col tempo si arriva a qualcosina in più, qualcuno ha un po’ di contrattazione aziendale, c’è il premio di risultato, ma le cifre sono queste e purtroppo si fa anche fatica a negoziarle perché il rischio che si sposti tutto all’estero è fortissimo.
L’operatore del call center inbound è un lavoratore dipendente. Quali sono invece le condizioni lavorative degli outbound?
Ovviamente sul piano delle tutele, se pensi alla maternità, alla malattia, alle ferie non c’è paragone tra le due formule. Ci sono però persone che, magari per carattere, sono particolarmente brave nel rapporto con le persone e portano a casa anche parecchi soldi. L’outbound prevede una quota fissa più la provvigione. C’è anche chi lo fa come secondo lavoro. Non dimentichiamo poi l’aspetto della totale autonomia nel decidere quando e quanto lavorare. Tra l’altro oggi, soprattutto al sud, alcune aziende, anziché fare grandi capannoni costringendo le persone a lunghi spostamenti, hanno dislocato i posti di lavoro, aprendo delle stanzette, degli uffici nei vari paesi, per cui uno non è proprio a casa, ma quasi. Parlando di attività poco remunerate, il fatto di vivere in un posto dove il costo della vita è compatibile con il basso costo del lavoro è decisivo.
Qual è la retribuzione di un operatore di call center outbound?
Dipende. Per quattro ore ti possono dare 400 euro fissi e il resto a provvigione. Dopodiché la provvigione dipende dalle commesse: se vendi un pezzo da un milione è una cosa, se vendi una forchetta è un’altra. Ho visto gente che prendeva 500 euro al mese e gente che ne prendeva 2500. Dipende dal business e anche dalle liste che ti danno. Quando stabilizzammo Atesia, un call center che si trovava a Cinecittà e contava migliaia di persone, ecco, lì c’erano lavoratori a progetto che portavano a casa 2000 euro. Noi, regolarizzandoli, li abbiamo portati a prendere 600 al mese, figurati: ci volevano ammazzare!
In realtà, come la storia insegna, ci sono fasi di espansione economica e fasi di contrazione e il fatto di avere uno stipendio fisso, per quanto scarso, e qualche tutela, nei momenti di crisi, beh, non è da disprezzare.
Quando si chiama un numero di assistenza spesso bisogna fare le acrobazie per riuscire a parlare con un operatore...
Si chiama "albero” quando tu chiami e ti senti rispondere: "Se sei interessato a questo, premi uno, se sei interessato a quello, premi due”. Questo avviene perché, siccome l’efficienza si fa sul costo del lavoro, tutte le informazioni che riesco a darti o a ricevere senza utilizzare l’operatore, sono un guadagno netto. Questa modalità viene utilizzata con particolare aggressività dagli operatori mobili, quindi Tim, Vodafone, Wind, ecc. A volte, è vero, non riesci proprio a parlare con nessuno, ma perché loro tentano disperatamente di non farti accedere all’operatore perché questo riduce i costi. I dati raccolti senza operatore vengono poi elaborati dai backoffice che, anziché in diretta, lavorano in modo "postumo” il materiale. Oggi i call center non solo usano più canali, ma operano anche in differita quando la commessa lo permette.
L’esternalizzazione dei servizi di supporto ha influito negativamente sulla qualità dell’assistenza. La scorsa settimana l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha multato quasi tutti gli operatori telefonici.
Certo. Questa è la grande contraddizione del settore. Noi come sindacato abbiamo chiesto per anni un tavolo ministeriale affinché ci fosse un prezzo minimo nei bandi, nelle offerte, quando metti a gara quattro-cinque soggetti. Abbiamo sempre sostenuto che ci doveva essere una legge che impedisse di andare sotto il costo del lavoro. Il fatto è che se anche le commesse che vengono dal pubblico (dall’Inps, dall’Inail, ecc.) fanno fatica a fare un bando che tenga conto del costo del lavoro come limite minimo, come possiamo pretendere che ne tengano conto i soggetti privati? Purtroppo la fase è quella che è e la pressione più forte è quella che chiede: "Fammi pagare di meno”.
A forza di chiedere di abbassare il costo del lavoro, molte aziende hanno delocalizzato...
Prima hanno spostato le commesse al sud perché la 407/90 prevede tre anni di sgravi fiscali e questo permette di fare un prezzo più basso. Adesso vanno a Tirana così il prezzo è ancora più basso.
Il fatto è che qui non sei di fronte a una fabbrica. Infatti, in questo settore la citata legge 407/90 ha degli effetti controversi. Perché una cosa è dire alla Fiat: "Ti do tre anni di sgravi”; a quel punto la ditta apre e dopo i tre anni ormai ha il capannone, ha messo dentro la catena di montaggio, ha fatto degli investimenti e quindi va avanti. Ma in questo mestiere, dopo tre anni giri la chiave e vai da un’altra parte, magari lasci Bari e chiedi altri tre anni di sgravi a Lecce -e intanto però a Bari hai gli esuberi. Questa parte di normativa fiscale per questo settore andrebbe ripensata; alcuni propongono, mantenendo lo stesso montante, di diluirlo in più anni, magari dieci anziché tre.
Sono stati fatti dei provvedimenti anche per disincentivare la delocalizzazione. Per esempio, l’operatore che delocalizza deve dare indicazioni di dove va e quante persone delocalizza. C’è anche un problema di privacy. Quando chiamo Wind in Italia so che sto dando delle informazioni a un operatore che è soggetto alla giurisdizione italiana. Se mi risponde un operatore che risiede in Albania, i miei dati come sono tutelati? Un’altra ipotesi è che sia inibito l’uso dei vantaggi fiscali per il sud se apri all’estero.
Purtroppo, ripeto, i tempi sono quelli che sono. Ora anche Vodafone è in crisi, ha da poco chiuso l’accordo sugli esuberi, per salvare il perimetro dei propri lavoratori ha tagliato le attività che dava all’esterno e così ora Almaviva, soprattutto nelle sedi di Catania e Napoli, ha un grave problema occupazionale. È una situazione diffusa.
Hai detto che oggi a lavorare nei call center non sono più solo universitari o giovani in attesa di fare altro. Ma è un lavoro davvero "sostenibile” nel tempo?
C’è da dire che questo lavoro sta anche un po’ cambiando, si sta articolando. Come dicevo, oggi il cliente può essere intercettato online o via email oltre che per telefono. Nelle aziende un minimo strutturate questo permette di diversificare il lavoro. È un cambiamento importante perché ti assicuro che poter passare a un lavoro di backoffice per chi si è fatto dieci anni di cuffia è vitale. Infatti, dove si può, chi ha una certa anzianità lavorativa passa a un lavoro al computer, in cui non c’è il rapporto diretto col cliente, e magari in cuffia ci vanno i nuovi arrivati. Anche perché chi lavora in cuffia è sottoposto a forti pressioni legate proprio al meccanismo sottostante. Funziona così: Telecom gira al call center un milione di chiamate e le paga tot, a prescindere dal tempo impiegato. Il dipendente invece è pagato a tempo, quindi un conto è se prende dieci chiamate all’ora, un conto se ne prende trenta.
La pressione sull’operatore a gestire il rapporto con il cliente e risolvergli il problema nel minor tempo possibile è fortissima. A volte lo stesso luogo di lavoro non aiuta. Un po’ sono tutti uguali: open space, dove ciascun operatore ha il suo terminale, le cuffie e un divisore, ma poi ci sono quelli dove è dedicato più spazio all’operatore e quelli... ne ho visto uno a Pomezia un paio d’anni fa: era una gabbietta. Ci sono gli ambienti più ampi, con la sala mensa e gli spazi comuni, ma ci sono anche i sottoscala che ogni tanto saltan fuori...
Dicevi che queste aziende prendono commissioni da varie agenzie. Quindi un operatore di call center può trovarsi a dare informazioni sull’Adsl di un gestore telefonico per un mese e il mese dopo a ricevere chiamate dai clienti di una banca...
È un mestiere duro. Va anche detto che ci sono commesse più massive e commesse con una professionalità più alta. Gli stessi committenti, se sono portati a chiedere una forte riduzione del costo del lavoro con le commesse più massive (perché magari interessa più il numero, la quantità, che la qualità), con le commesse più delicate adottano un altro approccio.
Telecom Italia, per esempio, dà fuori l’attività del consumer, del privato, però l’attività executive, quella rivolta alle aziende, la tiene dentro dove le persone sono pagate meglio e allora puoi anche chiedere una prestazione diversa, più qualificata. Al lavoratore a cui dai 600 euro al mese non è che puoi chiedere di rispondere sui massimi sistemi in tre secondi.
Devo dire che i lavoratori dei call center stanno diventando bravi, tant’è che per le aziende diventa sempre più complicato spiegare ai propri azionisti perché tengono dentro gente che fa un mestiere che fatto fuori costerebbe un 30% in meno. È uno dei problemi che Telecom ha messo sul tavolo alla recente trattativa: "O voi siete in grado di aumentarmi l’efficienza sennò io faccio fatica a spiegare perché per fare lo stesso lavoro devo pagare dei soldi in più”.
Le persone che lavorano nei call center che titoli di studio hanno?
Se un tempo prevalevano le qualifiche basse, oggi sono in gran parte diplomati, ci sono anche molti laureati, soprattutto al sud. In alcune aree è una delle poche opportunità di occupazione. L’altro giorno sono andato dal notaio a Napoli, la mia città, e c’era questa signora che, sapendo che lavoro al sindacato delle telecomunicazioni, mi ha detto: "Mia figlia si è appena laureata. Sa se in qualche call center cercano?”. Le ho chiesto: "In cosa si è laureata?”. "In Scienze della Comunicazione”. "Bene, e con che voto?”. "110”. Ecco, capisci? A Napoli è così. E non solo a Napoli, ormai dire che il mercato del lavoro è asfittico è dire niente.
Infatti fino a un paio d’anni fa i lavoratori dei call center chiedevano un aumento di ore. Nell’ultimo anno la domanda che abbiamo trattato con più frequenza è stata cassa integrazione o solidarietà. Sono pochissime ormai le aziende che non utilizzano gli ammortizzatori sociali. E per fortuna che qualche anno fa sono intervenuti gli strumenti in deroga (non essendo industria questo comparto non ha la cassa integrazione ordinaria), sennò avrebbero tutti chiuso. Ma quanto durerà? Qualche giorno fa siamo stati al Ministero per una cassa integrazione concordata fino a fine anno. Ci siamo sentiti rispondere: "Ve la diamo per quattro mesi, poi vediamo”. Non ci sono più i soldi.
(a cura di Barbara Bertoncin e Pinuccia Cazzaniga)
Da molti anni segui i lavoratori dei call center e tu stesso hai svolto questo lavoro. Volevamo capire com’è cambiata la situazione.
Io ho lavorato al servizio 12 elenco abbonati, parliamo dell’88, e poi al 187 commerciale quando è nata Telecom Italia. Rispetto al modo di lavorare, il cambiamento principale riguarda la flessibilità della prestazione. All’epoca, il cliente ti chiamava per telefono e tu lavoravi dal lunedì al venerdì, ma alle quattro chiudevi. Oggi non solo questo servizio viene offerto H24 ma è multicanale, nel senso che puoi accedere ai servizi di informazione e di supporto tecnico anche attraverso la posta elettronica, internet, le chat. Almaviva, Call & Call, così come altre aziende del settore, oggi mettono in campo diverse modalità di risposta. Dipende dalla tipologia della commessa: per esempio, se tu chiami il servizio tecnico hai bisogno che dall’altra parte ci sia qualcuno che ti risponde immediatamente. Se è un servizio commerciale, puoi chiedere informazioni via mail e dall’altra parte ti possono rispondere anche il giorno dopo.
Quindi intanto quando parliamo di call center non dobbiamo più pensare solo all’operatore telefonico. Tutte le aziende si stanno attrezzando per intercettare i cosiddetti volumi di chiamate con modalità alternative che tra l’altro hanno costi enormemente più bassi per cui riducono ulteriormente il costo del lavoro. Anche questo va sottolineato: queste sono aziende "labour-intensive” dove il costo dell’attività è per l’80% costo del lavoro perché quello che resta è il capannone, le cuffiette e la rete per portarti le chiamate. Non c’è la fabbrica, non ci sono le macchine. La competizione avviene sul costo del lavoro. Dovrebbe anche svolgersi sulla qualità del servizio, ma in una fase come questa i committenti, soprattutto in area telco, delle telecomunicazioni, che sono quelli che stanno soffrendo di più, fanno pressione prevalentemente sul prezzo.
Quand’è che le grandi aziende hanno cominciato a decentralizzare i call center, dandoli in outsourcing a ditte esterne?
È un processo lungo che è durato anni. Volendogli dare una data d’inizio, possiamo mettere il 2000, quando è nato il contratto di settore delle telecomunicazioni (Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro per le Imprese esercenti servizi di telecomunicazione) cui via via hanno aderito le aziende del settore, che sono le licenziatarie del servizio, quindi Tim, Wind, Vodafone, 3G, ecc. Con quel contratto è stata fatta una scommessa nel senso che il contratto delle telecomunicazioni è diventato anche il contratto dei call center. Abbiamo fatto la scommessa di tenere assieme l’intera filiera dei committenti e delle aziende che svolgono il servizio. Moltissimi call center hanno trovato conveniente aderire a questo contratto. Con il tempo questo si è rivelato anche un elemento di sofferenza perché tiene dentro aziende con capacità economiche molto diverse. Qualche contraddizione rimane anche se, soprattutto con la stipula dell’ultimo contratto, siamo riusciti a tenere assieme le istanze di entrambi i mondi.
Nell’immaginario, quello del call center è il lavoro precario per eccellenza. È ancora così?
Qui bisogna fare una precisazione importante. Prima tutte le attività di call center venivano svolte da lavoratori prima co.co.co e poi co.co.pro, quindi da lavoratori precari. Durante il governo Prodi, nel 2006, il ministro Damiano ha emanato una prima e una seconda circolare alla quale ha fatto seguito una circolare Sacconi durante il governo Berlusconi, regolata ulteriormente dal 24 bis della legge Fornero.
Tutta questa letteratura normativa sostanzialmente ha introdotto una divisione di questo mestiere in due grandi branche: l’inbound e l’outbound. La branca dell’inbound è la prestazione del lavoratore che riceve la chiamata del cliente. Tu chiami il 190 per avere informazioni sul tuo telefono o sulla promozione e ti risponde un operatore. Quella è una chiamata inbound. La circolare Damiano e successive hanno tutte certificato che chi fa questo mestiere non può che essere un lavoratore subordinato quindi con un contratto collettivo nazionale. Pertanto da quel momento si è proceduto alle stabilizzazioni. All’epoca io lavoravo sulla struttura del Lazio e ho fatto accordi per migliaia di lavoratori. Non esagero: migliaia di lavoratori passarono da precari a subordinati. Quella circolare e le successive hanno però lasciato aperte le maglie per l’utilizzo di lavoratori precari nell’attività outbound, che è quella invece dell’operatore che fa le telefonate. Il presupposto, semplificando, è che l’attività outbound è autonoma perché sono io che gestisco il rapporto con il cliente, sono io che chiamo la persona a casa e le chiedo se vuole comprare il frigorifero, ecc. Ecco allora che l’attività dell’operatore outbound può essere assimilata a un co.co.pro, cioè a un lavoratore autonomo parasubordinato che viene pagato a risultato, a obiettivo.
Questo ha prodotto una discriminante nel settore. Oggi le attività inbound sono illegali se non sono fatte con lavoratori con contratto subordinato, mentre per le attività outbound dipende dalla prestazione: se la prestazione ha un orario rigido di entrata e uscita, un rapporto gerarchico definito, si configura più come attività subordinata; se invece è lasciata alla libera e autonoma valutazione dell’operatore che decide quando venire a lavorare, quante chiamate fare, allora è corretto configurarla come contratto a progetto.
Chi fa questo lavoro? Sono solo universitari?
Non è più così. Per l’attività inbound, oggi quello del call center, soprattutto nel sud, ma anche al nord, è diventato "il” lavoro. Certo, per molti è cominciato così: erano studenti o mamme. Apro una parentesi: questo è un mestiere dove il part-time è l’articolazione oraria preferita dalle aziende. Allora una mamma che vuole conciliare il tempo di vita e quello di lavoro, oppure lo studente che deve contemporaneamente preparare degli esami, trovano questa formula particolarmente conveniente. E tuttavia se per anni questi sono stati i soggetti tipici di questo lavoro, oggi ti assicuro che non è più così: soprattutto al sud ci sono famiglie che ci vivono, con magari moglie e marito che lavorano nello stesso call center, che casomai si sono conosciuti lì. Qualche anno fa, un’azienda, mi sembra Teleperformance, ci dichiarò che a Taranto aveva un tasso di natalità altissimo. Erano tutti ragazzi, forse pensavano di rimanerci solo per un po’ e invece poi...
I call center aprono soprattutto al Sud?
La legislazione italiana prevede alcune norme di incentivo come la 407/90, in base alla quale spetta un’agevolazione contributiva per i primi 36 mesi per le aziende che aprono al sud. Questo ha favorito l’insediamento dei call center perché trovano una maggior leva fiscale. Ma poi c’è anche il diverso costo della vita: a Bari o a Lecce con uno stipendio modesto ci campi, a Milano no.
Com’è organizzato il lavoro?
Dipende dalle commesse. Tendenzialmente l’orario è H24, nel senso che la prestazione va garantita sette giorni su sette, con dei turni. Se lavori su un servizio business, quindi rivolto alle aziende, probabilmente non ti chiederanno di lavorare la domenica però magari il sabato mattina sì. Se lavori su un servizio retail, di supporto al telefono di casa, per cui devi rispondere anche alla nonna che vive in montagna e che ti chiama alle otto di domenica, allora lavori sempre. Dipende dal cliente. Nelle telecomunicazioni rispondono sempre. Con le banche è diverso, anche con l’energia o le assicurazioni.
Chi si affida a servizi di call center?
Ormai tutti. Si va dai servizi di Tlc (telecomunicazioni) alle banche, all’Inps, all’Inail, alle Ferrovie dello Stato, all’energia... Non c’è più nessuno che lo fa in house. Anche Telecom, che aveva il call center interno, gradualmente lo sta dismettendo; in pratica non fa turnover su quel pezzo di azienda e man mano dà fuori le attività. Ha anche costituito un’azienda esterna, ma controllata dal gruppo Telecom, Telecontact center, che le permette di fornire lo stesso servizio a costi minori.
Dicevi che le aziende vogliono il part-time. Perché?
Perché i volumi di traffico sono rappresentati da due grandi gobbe: c’è un picco intorno a mezzogiorno e poi scende e poi c’è un altro picco che risale intorno alle quattro del pomeriggio e poi ridiscende la sera. Un lavoratore a otto ore sarebbe collocato per un pezzo sul picco e per un pezzo in orari in cui non c’è traffico. Se tu invece hai dei part-time li puoi usare scaglionati collocandoli a ridosso dei picchi. Questo è decisivo perché essendo questo, come dicevo, un settore labour-intensive, dove la competizione avviene prevalentemente sul costo del lavoro, bisogna ottimizzare il lavoro delle persone. Non è concepibile che ci sia qualcuno che è sul posto di lavoro e non riceve chiamate, o viceversa che ci siano delle chiamate a cui non si risponde.
Un contratto a part-time è particolarmente rigido sugli orari, mentre un call center ha bisogno di grande flessibilità. Come stanno assieme le due cose?
I part-time hanno una rigidità sull’articolazione oraria normato dalla legge; quando tu vieni assunto con un contratto in part-time sostanzialmente sottoscrivi una lettera in cui concordi con l’azienda la prestazione oraria.
Questa rigidità ha una spiegazione. La filosofia del part-time in origine era di poterlo conciliare con le esigenze di vita, di studio, o anche con un altro lavoro. Ora, se dovevi andare a prendere tuo figlio o ancora più se dovevi andare a fare un altro lavoro avevi bisogno di un’articolazione oraria certa, ti doveva essere garantito che la tua prestazione sarebbe stata sempre e solo dalle otto alle dodici, per esempio. Questo retaggio oggi cozza col fatto che in realtà per molti, come dicevo, il part-time è "il” lavoro, non è un’integrazione o una situazione temporanea. E qui c’è una contraddizione tra ciò che chiedono le aziende, che vorrebbero tutti a part-time, e ciò che chiediamo noi come sindacato, cioè di aumentare l’orario di lavoro (e quindi il salario) perché questo risponde all’esigenza di metter su una famiglia o comunque di avere una prospettiva di vita dignitosa, ma questo è un altro discorso.
Cosa succedeva prima? Che una volta concordata con l’azienda l’articolazione oraria, se l’azienda aveva bisogno di spostare l’orario dalla fascia 8-12 a quella 14-18, bisognava rifare il contratto, andare all’Ufficio provinciale del lavoro e depositare una nuova lettera, che tra l’altro doveva essere condivisa dal lavoratore.
Questo all’inizio, quando le aziende erano in una fase espansiva, non creava particolari problemi. Considera che un’azienda come Almaviva aveva superato le 10.000 persone. Se tu pensi che Vodafone conta 7-8000 dipendenti, Wind circa 7000, H3g, il quarto gestore, ne conta 2000, beh, tu capisci che parliamo di aziende con un peso occupazionale importante.
Ecco, oggi non è più così. In questa fase storica, le aziende, forti anche di un potere di ricatto sull’occupazione, ti dicono: "Va bene, io ti assumo part-time a quattro ore però in un arco orario più ampio”. Cioè tu vieni assunto a venti ore settimanali (quindi quattro ore per cinque giorni) con una prestazione che però potrai fornire dal lunedì alla domenica e dalle otto alle venti. A quel punto l’azienda può utilizzarti tre volte alla mattina, due volte al pomeriggio. In pratica, tu permetti all’azienda di farti fare le quattro ore in qualunque articolazione oraria nella fascia 8-20.
Ci sono anche le "clausole elastiche”. Cosa sono? Il lavoratore ha una matrice dove c’è scritto che il lunedì copre la fascia 8-12, il martedì quella 12-16, il mercoledì quella 16-20 ecc. Poi succede che il committente mi comunica che mercoledì invece di arrivarmi 100.000 chiamate la mattina e 50.000 al pomeriggio me ne arrivano 120.000 alla mattina... Insomma, succede l’imprevisto. Allora cinque giorni prima io azienda ti dico che anziché quella 16-20 mi coprirai la fascia 8-12. In pratica, le clausole elastiche prevedono la modificazione dell’articolazione oraria, con una maggiorazione salariale per le ore non coincidenti con la matrice. La legge Fornero, per i lavoratori che hanno dato il consenso per la fruizione di queste clausole, ha introdotto la "clausola di ripensamento”, cioè la possibilità, in alcune casistiche, di togliere il consenso a queste clausole. È una tutela per il lavoratore. Poi c’è l’uso del lavoro "supplementare”, che è la prestazione di lavoro svolta oltre l’orario giornaliero ma entro il limite del tempo pieno; oltre le otto ore si parla di straordinario vero. Nel contratto nuovo il tempo supplementare è trattato come l’orario base.
Il problema in questo settore è sempre quello di riuscire a gestire l’imprevisto...
Esattamente, cioè un aumento o una diminuzione non programmati dei volumi. Faccio un esempio: se lavori al 187 tecnico in Sardegna e viene un acquazzone ad Alghero, e magari la rete è poco manutenuta, le cento chiamate medie giornaliere diventano duemila. Questo scombussola tutto e l’unica cosa che l’azienda può fare è dire al lavoratore: "Resta qui”. In realtà ora sta succedendo esattamente il contrario, cioè l’azienda ha bisogno di lasciare a casa.
Su questo sono stati messi a disposizione alcuni strumenti di flessibilità, come la fruizione dei Rol (i cosiddetti "permessi”) al 30% in capo alle aziende. Funziona così: se l’azienda oggi pensava di ricevere 2000 chiamate e a un certo punto si accorge che ne sta ricevendo 1500, potendo disporre di una parte dei tuoi permessi, ti chiede di andare a casa.
Qual è invece lo stipendio di un operatore di call center inbound?
Si entra al secondo livello. Le retribuzioni sono quelle del contratto nazionale. Parliamo, in entrata, di circa 600 euro per un part-time di quattro ore. Col tempo si arriva a qualcosina in più, qualcuno ha un po’ di contrattazione aziendale, c’è il premio di risultato, ma le cifre sono queste e purtroppo si fa anche fatica a negoziarle perché il rischio che si sposti tutto all’estero è fortissimo.
L’operatore del call center inbound è un lavoratore dipendente. Quali sono invece le condizioni lavorative degli outbound?
Ovviamente sul piano delle tutele, se pensi alla maternità, alla malattia, alle ferie non c’è paragone tra le due formule. Ci sono però persone che, magari per carattere, sono particolarmente brave nel rapporto con le persone e portano a casa anche parecchi soldi. L’outbound prevede una quota fissa più la provvigione. C’è anche chi lo fa come secondo lavoro. Non dimentichiamo poi l’aspetto della totale autonomia nel decidere quando e quanto lavorare. Tra l’altro oggi, soprattutto al sud, alcune aziende, anziché fare grandi capannoni costringendo le persone a lunghi spostamenti, hanno dislocato i posti di lavoro, aprendo delle stanzette, degli uffici nei vari paesi, per cui uno non è proprio a casa, ma quasi. Parlando di attività poco remunerate, il fatto di vivere in un posto dove il costo della vita è compatibile con il basso costo del lavoro è decisivo.
Qual è la retribuzione di un operatore di call center outbound?
Dipende. Per quattro ore ti possono dare 400 euro fissi e il resto a provvigione. Dopodiché la provvigione dipende dalle commesse: se vendi un pezzo da un milione è una cosa, se vendi una forchetta è un’altra. Ho visto gente che prendeva 500 euro al mese e gente che ne prendeva 2500. Dipende dal business e anche dalle liste che ti danno. Quando stabilizzammo Atesia, un call center che si trovava a Cinecittà e contava migliaia di persone, ecco, lì c’erano lavoratori a progetto che portavano a casa 2000 euro. Noi, regolarizzandoli, li abbiamo portati a prendere 600 al mese, figurati: ci volevano ammazzare!
In realtà, come la storia insegna, ci sono fasi di espansione economica e fasi di contrazione e il fatto di avere uno stipendio fisso, per quanto scarso, e qualche tutela, nei momenti di crisi, beh, non è da disprezzare.
Quando si chiama un numero di assistenza spesso bisogna fare le acrobazie per riuscire a parlare con un operatore...
Si chiama "albero” quando tu chiami e ti senti rispondere: "Se sei interessato a questo, premi uno, se sei interessato a quello, premi due”. Questo avviene perché, siccome l’efficienza si fa sul costo del lavoro, tutte le informazioni che riesco a darti o a ricevere senza utilizzare l’operatore, sono un guadagno netto. Questa modalità viene utilizzata con particolare aggressività dagli operatori mobili, quindi Tim, Vodafone, Wind, ecc. A volte, è vero, non riesci proprio a parlare con nessuno, ma perché loro tentano disperatamente di non farti accedere all’operatore perché questo riduce i costi. I dati raccolti senza operatore vengono poi elaborati dai backoffice che, anziché in diretta, lavorano in modo "postumo” il materiale. Oggi i call center non solo usano più canali, ma operano anche in differita quando la commessa lo permette.
L’esternalizzazione dei servizi di supporto ha influito negativamente sulla qualità dell’assistenza. La scorsa settimana l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha multato quasi tutti gli operatori telefonici.
Certo. Questa è la grande contraddizione del settore. Noi come sindacato abbiamo chiesto per anni un tavolo ministeriale affinché ci fosse un prezzo minimo nei bandi, nelle offerte, quando metti a gara quattro-cinque soggetti. Abbiamo sempre sostenuto che ci doveva essere una legge che impedisse di andare sotto il costo del lavoro. Il fatto è che se anche le commesse che vengono dal pubblico (dall’Inps, dall’Inail, ecc.) fanno fatica a fare un bando che tenga conto del costo del lavoro come limite minimo, come possiamo pretendere che ne tengano conto i soggetti privati? Purtroppo la fase è quella che è e la pressione più forte è quella che chiede: "Fammi pagare di meno”.
A forza di chiedere di abbassare il costo del lavoro, molte aziende hanno delocalizzato...
Prima hanno spostato le commesse al sud perché la 407/90 prevede tre anni di sgravi fiscali e questo permette di fare un prezzo più basso. Adesso vanno a Tirana così il prezzo è ancora più basso.
Il fatto è che qui non sei di fronte a una fabbrica. Infatti, in questo settore la citata legge 407/90 ha degli effetti controversi. Perché una cosa è dire alla Fiat: "Ti do tre anni di sgravi”; a quel punto la ditta apre e dopo i tre anni ormai ha il capannone, ha messo dentro la catena di montaggio, ha fatto degli investimenti e quindi va avanti. Ma in questo mestiere, dopo tre anni giri la chiave e vai da un’altra parte, magari lasci Bari e chiedi altri tre anni di sgravi a Lecce -e intanto però a Bari hai gli esuberi. Questa parte di normativa fiscale per questo settore andrebbe ripensata; alcuni propongono, mantenendo lo stesso montante, di diluirlo in più anni, magari dieci anziché tre.
Sono stati fatti dei provvedimenti anche per disincentivare la delocalizzazione. Per esempio, l’operatore che delocalizza deve dare indicazioni di dove va e quante persone delocalizza. C’è anche un problema di privacy. Quando chiamo Wind in Italia so che sto dando delle informazioni a un operatore che è soggetto alla giurisdizione italiana. Se mi risponde un operatore che risiede in Albania, i miei dati come sono tutelati? Un’altra ipotesi è che sia inibito l’uso dei vantaggi fiscali per il sud se apri all’estero.
Purtroppo, ripeto, i tempi sono quelli che sono. Ora anche Vodafone è in crisi, ha da poco chiuso l’accordo sugli esuberi, per salvare il perimetro dei propri lavoratori ha tagliato le attività che dava all’esterno e così ora Almaviva, soprattutto nelle sedi di Catania e Napoli, ha un grave problema occupazionale. È una situazione diffusa.
Hai detto che oggi a lavorare nei call center non sono più solo universitari o giovani in attesa di fare altro. Ma è un lavoro davvero "sostenibile” nel tempo?
C’è da dire che questo lavoro sta anche un po’ cambiando, si sta articolando. Come dicevo, oggi il cliente può essere intercettato online o via email oltre che per telefono. Nelle aziende un minimo strutturate questo permette di diversificare il lavoro. È un cambiamento importante perché ti assicuro che poter passare a un lavoro di backoffice per chi si è fatto dieci anni di cuffia è vitale. Infatti, dove si può, chi ha una certa anzianità lavorativa passa a un lavoro al computer, in cui non c’è il rapporto diretto col cliente, e magari in cuffia ci vanno i nuovi arrivati. Anche perché chi lavora in cuffia è sottoposto a forti pressioni legate proprio al meccanismo sottostante. Funziona così: Telecom gira al call center un milione di chiamate e le paga tot, a prescindere dal tempo impiegato. Il dipendente invece è pagato a tempo, quindi un conto è se prende dieci chiamate all’ora, un conto se ne prende trenta.
La pressione sull’operatore a gestire il rapporto con il cliente e risolvergli il problema nel minor tempo possibile è fortissima. A volte lo stesso luogo di lavoro non aiuta. Un po’ sono tutti uguali: open space, dove ciascun operatore ha il suo terminale, le cuffie e un divisore, ma poi ci sono quelli dove è dedicato più spazio all’operatore e quelli... ne ho visto uno a Pomezia un paio d’anni fa: era una gabbietta. Ci sono gli ambienti più ampi, con la sala mensa e gli spazi comuni, ma ci sono anche i sottoscala che ogni tanto saltan fuori...
Dicevi che queste aziende prendono commissioni da varie agenzie. Quindi un operatore di call center può trovarsi a dare informazioni sull’Adsl di un gestore telefonico per un mese e il mese dopo a ricevere chiamate dai clienti di una banca...
È un mestiere duro. Va anche detto che ci sono commesse più massive e commesse con una professionalità più alta. Gli stessi committenti, se sono portati a chiedere una forte riduzione del costo del lavoro con le commesse più massive (perché magari interessa più il numero, la quantità, che la qualità), con le commesse più delicate adottano un altro approccio.
Telecom Italia, per esempio, dà fuori l’attività del consumer, del privato, però l’attività executive, quella rivolta alle aziende, la tiene dentro dove le persone sono pagate meglio e allora puoi anche chiedere una prestazione diversa, più qualificata. Al lavoratore a cui dai 600 euro al mese non è che puoi chiedere di rispondere sui massimi sistemi in tre secondi.
Devo dire che i lavoratori dei call center stanno diventando bravi, tant’è che per le aziende diventa sempre più complicato spiegare ai propri azionisti perché tengono dentro gente che fa un mestiere che fatto fuori costerebbe un 30% in meno. È uno dei problemi che Telecom ha messo sul tavolo alla recente trattativa: "O voi siete in grado di aumentarmi l’efficienza sennò io faccio fatica a spiegare perché per fare lo stesso lavoro devo pagare dei soldi in più”.
Le persone che lavorano nei call center che titoli di studio hanno?
Se un tempo prevalevano le qualifiche basse, oggi sono in gran parte diplomati, ci sono anche molti laureati, soprattutto al sud. In alcune aree è una delle poche opportunità di occupazione. L’altro giorno sono andato dal notaio a Napoli, la mia città, e c’era questa signora che, sapendo che lavoro al sindacato delle telecomunicazioni, mi ha detto: "Mia figlia si è appena laureata. Sa se in qualche call center cercano?”. Le ho chiesto: "In cosa si è laureata?”. "In Scienze della Comunicazione”. "Bene, e con che voto?”. "110”. Ecco, capisci? A Napoli è così. E non solo a Napoli, ormai dire che il mercato del lavoro è asfittico è dire niente.
Infatti fino a un paio d’anni fa i lavoratori dei call center chiedevano un aumento di ore. Nell’ultimo anno la domanda che abbiamo trattato con più frequenza è stata cassa integrazione o solidarietà. Sono pochissime ormai le aziende che non utilizzano gli ammortizzatori sociali. E per fortuna che qualche anno fa sono intervenuti gli strumenti in deroga (non essendo industria questo comparto non ha la cassa integrazione ordinaria), sennò avrebbero tutti chiuso. Ma quanto durerà? Qualche giorno fa siamo stati al Ministero per una cassa integrazione concordata fino a fine anno. Ci siamo sentiti rispondere: "Ve la diamo per quattro mesi, poi vediamo”. Non ci sono più i soldi.
(a cura di Barbara Bertoncin e Pinuccia Cazzaniga)
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