QUANDO SI UTILIZZANO I DISOCCUPATI PER RAFFORZARE LO SFRUTTAMENTO...
Mentre la disoccupazione ha raggiunto livelli record in Europa con un tasso che supera il 12%, in una lunga intervista per Standaard, Bart De Wever [leader del Partito di Nuova Alleanza Fiamminga, N-VA] dichiara che la contraddizione tra capitale e lavoro non è più rilevante: la nuova linea di demarcazione è tra produttivi e non produttivi. Per lui, "lo Stato è un mostro che ispira ed espira denaro. Chi apporta denaro? Quelli che creano valore aggiunto. Chi consuma denaro? I non produttivi, così importanti elettoralmente che consentono di perpetuare questa politica".
In Francia, il deputato di estrema destra Jacques Bompard ha presentato un disegno di legge per trasformare il disoccupato in un lavoratore gratuito. Questa idea, tutt'altro che nuova, era già nel programma di Nicolas Sarkozy nel 2007, suggerendo che "i titolari del minimo sociale siano impegnati in attività di interesse generale, per incoraggiare tutti a trovare un posto di lavoro, piuttosto che vivere di assistenza". In Inghilterra, per giustificare una nuova riforma del sistema di previdenza sociale per ridurre la quantità dei sussidi di disoccupazione, David Cameron dichiara oggi che il sistema "è diventato una scelta di vita per alcuni" [1]. Gli interventi raccomandati da questi politici sono quindi diretti a ripristinare la "giustizia" di un sistema che penalizza chi "lavora sodo" e premiare chi indulge nella "dipendenza". Questo discorso è diventato egemonico e incarna una tendenza generale sul continente dove è diventato luogo comune esaltare "chi si alza presto", contro gli "assistiti", i "produttivi" contro gli "improduttivi" e per meglio legittimare le riforme di austerità e la crescita della disuguaglianza.
Questa idea ci reinvia oggi al "modello tedesco", con la promozione di lavori di interesse generale pagati 1 euro all'ora per ottenere l'assistenza sociale. Il vantaggio di questo modello sviluppato sotto il governo Schroeder tra il 2003-2005, risiede precisamente nel fatto che si concentra sulla ristrutturazione radicale del sistema di disoccupazione e degli ammortizzatori sociali legandoli a profonde riforme in materia di impiego, le riforme Hartz. Questa riconfigurazione dello stato sociale tedesco viene quindi posta a sostegno della riforma del mercato del lavoro, costringendo i disoccupati ad accettare un posto di lavoro anche se lo stipendio percepito è inferiore all'indennità di disoccupazione, facendo esplodere il fenomeno dei "lavoratori poveri". Lungi dal limitarsi ad una politica di moderazione salariale, il modello tedesco ha come caratteristica centrale quella d'aver incentrato i suoi sforzi sulle "riserve" (disoccupati, poveri, precari) e non sui lavoratori "stabili". Ma per questa via, ha causato una profonda destabilizzazione di tutto il mercato del lavoro senza dover affrontare direttamente i settori più sindacalizzati e combattivi del salariato. Tali riforme non sembrano limitate alla Germania, ma invece si generalizzano in tutta Europa. Si pone con insistenza una questione: come spiegare la relativa passività con cui i sindacati e i movimenti operai dei vari paesi hanno risposto a queste riforme. In Belgio la riforma per la riduzione progressiva degli ammortizzatori sociali ha mobilitato solo frange minoritarie del salariato, in Germania le riforme radicali Hartz sono state accompagnate da loro. Come spiegare una mobilitazione così debole da parte degli "attivi" quando si tratta di questioni che interessano i "non-attivi"?
Per capire questo problema, è necessario rifarsi alla polarizzazione dei salari verificatasi tra "attivi" e "non attivi" a seguito dell'esplosione della disoccupazione, fin dagli anni '70. Questo ha cambiato profondamente la visione popolare del mondo, con la separazione tra "loro" (i padroni) e "noi" (i lavoratori), così ben studiata da Richard Hoggart [intellettuale britannico, sociologo, ha dedicato particolare attenzione alla cultura popolare, ndt]. Radicata nell'esperienza quotidiana del mondo del lavoro, questa visione permetteva, anche prima di ogni pratica politica, la solidarietà culturale della classe operaia, fondando l'efficacia del discorso politico della sinistra [2]. La disgregazione degli ambienti popolari ha considerevolmente destabilizzato questa solidarietà, introducendo un "loro" al di sotto di "noi". Parti delle classi popolari hanno iniziato a nutrire la sensazione che "quelli" in alto non facevano nulla contro gli abusi di "quelli" in basso. Nel suo studio sul mondo operaio Oliver Schwartz ha scritto che: "Si produce qui una sorta di coscienza popolare che (...) si rivolta alternativamente contro quelli in alto e quelli in basso" [3]. Questa struttura corrisponde parzialmente al nuovo profilo che il Fronte Nazionale [di Le Pen] cerca di darsi per conquistare il voto delle classi lavoratrici: schierandosi contro il "sistema", le "elite" e il "dio denaro", ma attaccando contemporaneamente i disoccupati, gli immigrati, gli irregolari che ingrossano le fila degli "assistiti" [4]. Questa visione della società non dovrebbe tuttavia renderci ciechi riguardo al fatto che la logica politica della sinistra non è quella che rafforza questa dinamica, ma al contrario, quella che la supera. Sia sul piano teorico, che pratico.
Sul piano teorico significa rompere con la tendenza che ha sostituito il tema della centralità della questione operaia con quello dell'"esclusione", dal periodo post-bellico. In effetti, anche se la problematica si articola in modo differente nei diversi paesi, è tuttavia la questione delle "riserve" in tutte le sue varianti (disoccupati, poveri, precari, immigrati esclusi, ...) ad aver occupato il dibattito pubblico e scientifico per decenni. Come ha notato Xavier Vigna, c'è una nuova messa a fuoco "dal mondo del lavoro all'esclusione, alla povertà e alla disoccupazione" [5], che, paradossalmente, ha contribuito a plasmare questo dualismo nel dibattito pubblico. Separata dall'occupazione, la categoria dei "disoccupati", dei "poveri", dei "precari", non si iscrive più nella nozione di sfruttamento alla base dei rapporti economici quanto invece a forme di dominio, a situazioni di privazione relativa in termini monetari, sociali o psicologici.
A questo proposito è interessante notare come Marx poneva il problema alla sua epoca. Considerando che "Il concetto di lavoratore libero implica che egli è povero: virtualmente povero" [6], concepiva la nozione di pauperismo come latente nel lavoro salariato. Lo è virtualmente poiché è il risultato contraddittorio di uno stesso e unico sviluppo, quello che stabilisce una relazione fatale tra accumulazione di capitale e accumulazione di miseria. Fredric Jameson inoltre sottolineava che dobbiamo partire dalla struttura del modo di produzione e quindi dalla struttura dello sfruttamento e non dalle sue forme immediate e apparenti. Il dominio o l'esclusione sono per lui, non solo "il risultato di questa struttura, ma anche il modo in cui si riproducono" [7] e non il contrario. In questo modo ci incoraggia a "pensare la disoccupazione come una categoria dello sfruttamento" [8] e non solo come uno stato "precario" o una situazione separata dallo sfruttamento del lavoro salariato.
In termini pratici, è chiaro che le organizzazioni di difesa dei disoccupati e dei poveri troppo spesso trattano questi problemi indipendentemente dal mondo del lavoro. Eppure è proprio questa separazione che determina aspre riforme nei confronti delle "riserve", eludendo una forte protesta sociale. Questa mancanza di interesse - vedi la posizione talvolta conservatrice della classe operaia - verso gli "assistiti", diventa uno dei temi centrali dei movimenti sociali per gli anni a venire contro l'austerità. La capacità che avranno le organizzazioni politiche e sindacali a sensibilizzare e legare gli interessi delle "riserve" a quelli della classe operaia "stabile" determineranno il successo o il fallimento delle lotte future. Inoltre, dall'inizio dell'industrializzazione, Marx rimarcava che un passo decisivo nello sviluppo della lotta sociale coincide con il momento in cui i lavoratori scoprono che l'intensità della concorrenza che si fanno gli uni con gli altri dipende interamente dalla pressione esercitata dalle riserve e decidono di unirsi per organizzare obiettivi e azioni comuni tra gli occupati e i non occupati
Mentre la disoccupazione ha raggiunto livelli record in Europa con un tasso che supera il 12%, in una lunga intervista per Standaard, Bart De Wever [leader del Partito di Nuova Alleanza Fiamminga, N-VA] dichiara che la contraddizione tra capitale e lavoro non è più rilevante: la nuova linea di demarcazione è tra produttivi e non produttivi. Per lui, "lo Stato è un mostro che ispira ed espira denaro. Chi apporta denaro? Quelli che creano valore aggiunto. Chi consuma denaro? I non produttivi, così importanti elettoralmente che consentono di perpetuare questa politica".
In Francia, il deputato di estrema destra Jacques Bompard ha presentato un disegno di legge per trasformare il disoccupato in un lavoratore gratuito. Questa idea, tutt'altro che nuova, era già nel programma di Nicolas Sarkozy nel 2007, suggerendo che "i titolari del minimo sociale siano impegnati in attività di interesse generale, per incoraggiare tutti a trovare un posto di lavoro, piuttosto che vivere di assistenza". In Inghilterra, per giustificare una nuova riforma del sistema di previdenza sociale per ridurre la quantità dei sussidi di disoccupazione, David Cameron dichiara oggi che il sistema "è diventato una scelta di vita per alcuni" [1]. Gli interventi raccomandati da questi politici sono quindi diretti a ripristinare la "giustizia" di un sistema che penalizza chi "lavora sodo" e premiare chi indulge nella "dipendenza". Questo discorso è diventato egemonico e incarna una tendenza generale sul continente dove è diventato luogo comune esaltare "chi si alza presto", contro gli "assistiti", i "produttivi" contro gli "improduttivi" e per meglio legittimare le riforme di austerità e la crescita della disuguaglianza.
Questa idea ci reinvia oggi al "modello tedesco", con la promozione di lavori di interesse generale pagati 1 euro all'ora per ottenere l'assistenza sociale. Il vantaggio di questo modello sviluppato sotto il governo Schroeder tra il 2003-2005, risiede precisamente nel fatto che si concentra sulla ristrutturazione radicale del sistema di disoccupazione e degli ammortizzatori sociali legandoli a profonde riforme in materia di impiego, le riforme Hartz. Questa riconfigurazione dello stato sociale tedesco viene quindi posta a sostegno della riforma del mercato del lavoro, costringendo i disoccupati ad accettare un posto di lavoro anche se lo stipendio percepito è inferiore all'indennità di disoccupazione, facendo esplodere il fenomeno dei "lavoratori poveri". Lungi dal limitarsi ad una politica di moderazione salariale, il modello tedesco ha come caratteristica centrale quella d'aver incentrato i suoi sforzi sulle "riserve" (disoccupati, poveri, precari) e non sui lavoratori "stabili". Ma per questa via, ha causato una profonda destabilizzazione di tutto il mercato del lavoro senza dover affrontare direttamente i settori più sindacalizzati e combattivi del salariato. Tali riforme non sembrano limitate alla Germania, ma invece si generalizzano in tutta Europa. Si pone con insistenza una questione: come spiegare la relativa passività con cui i sindacati e i movimenti operai dei vari paesi hanno risposto a queste riforme. In Belgio la riforma per la riduzione progressiva degli ammortizzatori sociali ha mobilitato solo frange minoritarie del salariato, in Germania le riforme radicali Hartz sono state accompagnate da loro. Come spiegare una mobilitazione così debole da parte degli "attivi" quando si tratta di questioni che interessano i "non-attivi"?
Per capire questo problema, è necessario rifarsi alla polarizzazione dei salari verificatasi tra "attivi" e "non attivi" a seguito dell'esplosione della disoccupazione, fin dagli anni '70. Questo ha cambiato profondamente la visione popolare del mondo, con la separazione tra "loro" (i padroni) e "noi" (i lavoratori), così ben studiata da Richard Hoggart [intellettuale britannico, sociologo, ha dedicato particolare attenzione alla cultura popolare, ndt]. Radicata nell'esperienza quotidiana del mondo del lavoro, questa visione permetteva, anche prima di ogni pratica politica, la solidarietà culturale della classe operaia, fondando l'efficacia del discorso politico della sinistra [2]. La disgregazione degli ambienti popolari ha considerevolmente destabilizzato questa solidarietà, introducendo un "loro" al di sotto di "noi". Parti delle classi popolari hanno iniziato a nutrire la sensazione che "quelli" in alto non facevano nulla contro gli abusi di "quelli" in basso. Nel suo studio sul mondo operaio Oliver Schwartz ha scritto che: "Si produce qui una sorta di coscienza popolare che (...) si rivolta alternativamente contro quelli in alto e quelli in basso" [3]. Questa struttura corrisponde parzialmente al nuovo profilo che il Fronte Nazionale [di Le Pen] cerca di darsi per conquistare il voto delle classi lavoratrici: schierandosi contro il "sistema", le "elite" e il "dio denaro", ma attaccando contemporaneamente i disoccupati, gli immigrati, gli irregolari che ingrossano le fila degli "assistiti" [4]. Questa visione della società non dovrebbe tuttavia renderci ciechi riguardo al fatto che la logica politica della sinistra non è quella che rafforza questa dinamica, ma al contrario, quella che la supera. Sia sul piano teorico, che pratico.
Sul piano teorico significa rompere con la tendenza che ha sostituito il tema della centralità della questione operaia con quello dell'"esclusione", dal periodo post-bellico. In effetti, anche se la problematica si articola in modo differente nei diversi paesi, è tuttavia la questione delle "riserve" in tutte le sue varianti (disoccupati, poveri, precari, immigrati esclusi, ...) ad aver occupato il dibattito pubblico e scientifico per decenni. Come ha notato Xavier Vigna, c'è una nuova messa a fuoco "dal mondo del lavoro all'esclusione, alla povertà e alla disoccupazione" [5], che, paradossalmente, ha contribuito a plasmare questo dualismo nel dibattito pubblico. Separata dall'occupazione, la categoria dei "disoccupati", dei "poveri", dei "precari", non si iscrive più nella nozione di sfruttamento alla base dei rapporti economici quanto invece a forme di dominio, a situazioni di privazione relativa in termini monetari, sociali o psicologici.
A questo proposito è interessante notare come Marx poneva il problema alla sua epoca. Considerando che "Il concetto di lavoratore libero implica che egli è povero: virtualmente povero" [6], concepiva la nozione di pauperismo come latente nel lavoro salariato. Lo è virtualmente poiché è il risultato contraddittorio di uno stesso e unico sviluppo, quello che stabilisce una relazione fatale tra accumulazione di capitale e accumulazione di miseria. Fredric Jameson inoltre sottolineava che dobbiamo partire dalla struttura del modo di produzione e quindi dalla struttura dello sfruttamento e non dalle sue forme immediate e apparenti. Il dominio o l'esclusione sono per lui, non solo "il risultato di questa struttura, ma anche il modo in cui si riproducono" [7] e non il contrario. In questo modo ci incoraggia a "pensare la disoccupazione come una categoria dello sfruttamento" [8] e non solo come uno stato "precario" o una situazione separata dallo sfruttamento del lavoro salariato.
In termini pratici, è chiaro che le organizzazioni di difesa dei disoccupati e dei poveri troppo spesso trattano questi problemi indipendentemente dal mondo del lavoro. Eppure è proprio questa separazione che determina aspre riforme nei confronti delle "riserve", eludendo una forte protesta sociale. Questa mancanza di interesse - vedi la posizione talvolta conservatrice della classe operaia - verso gli "assistiti", diventa uno dei temi centrali dei movimenti sociali per gli anni a venire contro l'austerità. La capacità che avranno le organizzazioni politiche e sindacali a sensibilizzare e legare gli interessi delle "riserve" a quelli della classe operaia "stabile" determineranno il successo o il fallimento delle lotte future. Inoltre, dall'inizio dell'industrializzazione, Marx rimarcava che un passo decisivo nello sviluppo della lotta sociale coincide con il momento in cui i lavoratori scoprono che l'intensità della concorrenza che si fanno gli uni con gli altri dipende interamente dalla pressione esercitata dalle riserve e decidono di unirsi per organizzare obiettivi e azioni comuni tra gli occupati e i non occupati
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