mercoledì 19 marzo 2014

TUTTI I COSTI DELL'EMIGRAZIONE

TUTTI I COSTI DELL’IMMIGRAZIONE

tunisia-rifugiatiQuello dell’immigrazione è un problema gigantesco che viene spesso trattato in maniera superficiale o faziosa. Raramente viene affrontato serenamente e in tutti i suoi aspetti, sia quelli di ordine sociale, sia di segno economico. Il dibattito è spesso liquidato a livello di tifoseria calcistica: si è pro o contro. Punto e basta. È “politicamente corretto” essere a favore, e chi è contro è magari bollato di razzismo, di chiusura, di insensibilità. Senza esaminare i fatti nella loro complessità, chi è a favore lo è quasi sempre per questioni di principio (solidarietà, buonismo, globalismo) e chi è contro cade troppo spesso nella trappola  degli avversari e finisce per limitare la sua visione solo a una parte del problema, spesso neppure la più importante (crocifissi, kebab, moschee, burqa), magari nascondendosi dietro l’incipit  «non sono razzista, ma..».
Non sono i fatti e i numeri a essere al centro del confronto, che si basa così quasi sempre su prese di posizioni di ordine prevalentemente emotivo o ideologico. Per giustificare l’immigrazione vengono solitamente tirati fuori argomenti e temi  che possono essere riassunti in una serie di affermazioni che hanno nel tempo assunto la ossessiva ripetitività di altrettanti mantra: 1 ) «l’immigrazione pone rimedio alla nostra denatalità», 2 ) «gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare», 3 ) «abbiamo il dovere della solidarietà, anche perché la nostra è stata in passato una comunità di emigranti», 4 ) «la società multirazziale è l’ineluttabile futuro di tutti», 5 ) «gli immigrati sono una ricchezza sociale», 6 ) «il tasso di criminalità degli immigrati è uguale a quello degli italiani», 7 ) «i nuovi cittadini pagheranno le nostre pensioni», 8 ) «gli immigrati sono una risorsa economica». Vediamo di esaminare ogni singolo punto, non senza avere prima fatto una indispensabile premessa.
L’incertezza dei numeriIl tema è cruciale ma le informazioni per conoscerlo e governarlo sono molto approssimative. Non si hanno numeri accertati perché il fenomeno è in continuo movimento e cambia ogni giorno e perché la clandestinità (con la strutturale evanescenza dei suoi numeri) è un fatto predominante. I soli dati ufficiali di cui si dispone sono quelli che riguardano i regolarizzati, definitivamente incasellati nella macchina burocratica, o relativi a chi è incappato nelle strutture giudiziarie. Restano vaghi i numeri di quelli appena arrivati o che vivono nel limbo dell’iter della regolarizzazione o nel mondo dell’illegalità. Ci si deve perciò affidare principalmente alle notizie di centri di informazione settoriali o di organismi come la Caritas-Migrantes che, pur ricevendo anche aiuti pubblici, è una struttura privata che svolge i compiti che toccherebbero allo Stato e al potere pubblico, ma è  anche e soprattutto una organizzazione di parte e questo non la aiuta a fornire le garanzie di imparzialità che la struttura pubblica, pur nelle sue lentezze e inefficienze, dovrebbe invece garantire. La Caritas è infatti condizionata dalle sue scelte ideologiche, dal suo evidente schieramento a favore dell’immigrazione e dell’accoglienza a qualsiasi costo e condizione, oltre che dal non trascurabile dettaglio che proprio anche dall’ambaradan dell’immigrazione trae finanziamenti.
Nel saluto introduttivo alla presentazione del Dossier Statistico Immigrazione. 21° Rapporto 2011(di seguito, più semplicemente, Dossier 2011) il direttore della Caritas Italiana, Vittorio Nozza, proprio a proposito della “invasione di campo” dell’organismo che presiede in una materia che dovrebbe essere gestita dalla collettività, ha detto: «Siamo stati e resteremo disponibili ad aiutare la Pubblica Amministrazione in tutte le iniziative utili che promuoverà, ma riteniamo che alle voci istituzionali si debbano affiancare le voci dei centri di studio indipendenti, che all’occorrenza esercitino anche una funzione critica, sempre in difesa dei meno tutelati». Si tratta di una precisazione piuttosto significativa. La mancanza di dati certi e organici favorisce l’approccio emotivo o ideologico al problema, che è all’origine dei mantra citati, della superficialità con cui si affronta l’argomento e anche delle facili accuse di essere portatore di ogni nequizia rivolte a chi cerchi di sostenere tesi diverse o semplicemente chieda più completezza e trasparenza di informazione.
In generale l’incertezza dei numeri può essere attribuita alla difficoltà di reperirli, soprattutto in una situazione di diffusa fluidità del fenomeno e anche di illegalità, ma anche al problema di mettere assieme informazioni attinte da fonti diverse e relative a fenomeni disparati e anche difficilmente collegabili fra di loro. Ma c’è – e in alcuni ambienti è prevalente – una indubbia intenzionalità nel fornire dati incerti o addirittura nel cercare di occultarli. Chi ha interessi economici e ideologici nell’immigrazione preferisce non fare conoscere le esatte proporzioni del fenomeno per poter continuare a cavalcarlo in tutta tranquillità e opacità. Spesso anche i governi preferiscono non fare conoscere la realtà per evitare allarmismi e reazioni, e – in particolare – per non fornire argomenti a movimenti e partiti contrari all’immigrazione. Quello della carenza o dell’occultamento dei dati non è solo un problema italiano: in Francia il malvezzo è stato denunciato dalla demografa Michèle Tribalat e, a livello più ampio, dal giornalista americano Christopher Caldwell. L’argomento della “nebulosità” dei dati è trattato da Massimo Introvigne in una recensione allegata in appendice.
I numeriPartiamo da alcuni dei numeri accertati. Secondo il Dossier 2010 della Caritas-Migrantes, ci sarebbero in Italia, all’inizio del 2010, 4.235.000 stranieri residenti (dato Istat), o 4.919.000 considerando quelli non ancora iscritti all’anagrafe (dato Caritas). La recentissima edizione del Dossier 2011 dice che gli stranieri al 31 dicembre 2010 sono diventati 4.570.317 e quelli non ancora iscritti all’anagrafe circa 400.000 per un totale stimato di 4.968.000 persone. L’aumento di 335.258 regolari si è avuto – secondo il Dossier – nonostante le oltre 100.000 cancellazioni dall’anagrafe, di cui 33.000 per trasferimento all’estero e 74.000 per irreperibilità.
I clandestini sono stimati nel 2010 fra i 500 e i 700 mila, ma non è certo scorretto pensare che siano almeno il doppio: a questi vanno aggiunti i nuovi arrivi ma anche i 74.000 ex regolari che la Caritas mette quest’anno fra gli “irreperibili”, sfuggiti all’anagrafe.  Si arriva perciò a una cifra di più di 6 milioni di persone, cui vanno aggiunti più di  500 mila “naturalizzati” che negli ultimi anni hanno acquisito la cittadinanza italiana.  Nel 2010,  40.223 stranieri sono diventati cittadini italiani:  18.593 per matrimonio e 21.630 per residenza. Gli immigrati di seconda generazione sono quasi 650 mila, nati in Italia e privi della cittadinanza e per i quali è cominciato il coro di richieste di applicazione dello Jus soli, cioè del diritto di acquisizione della cittadinanza per il semplice fatto di essere nati su suolo italiano, sia pur da genitore stranieri. É piuttosto evidente che una simile pretesa riesce a fare saltare ogni statistica, oltre che ogni principio di diritto. Metà circa degli immigrati (il 51,8%) sono donne.  La Caritas, rapportando i 4.570.317 stranieri regolarizzati ai 60.626.442 residenti complessivi della Repubblica (dato Istat), fornisce una percentuale del 7,5% di stranieri, dimenticando nel conteggio quelli in attesa di regolarizzazione e i clandestini vecchi, nuovi e “di ritorno”. In realtà, comprendendo tutti gli stranieri effettivamente presenti,  si arriva all’11% della popolazione residente, più di uno straniero ogni 9 italiani.
Dal 1991 il numero di stranieri è aumentato di 12 volte. Nel 2007, erano 3.690.000, il 5,6% della popolazione; sono aumentati di quasi un milione nell’ultimo biennio. La distribuzione dei regolari sul territorio è la seguente: il 61,3% è in Padania, il 25,2% al Centro e il 13,5% al Sud e nelle isole. Secondo un dato Istat che risale al 1° gennaio 2011, perciò già inaccurato nei numeri assoluti ma sufficientemente indicativo per la distribuzione territoriale, si avrebbero le percentuali di stranieri in ogni regione che sono riportate nella Tabella 1. La prima colonna indica la percentuale di stranieri sul totale dei residenti e la seconda quella degli nati stranieri sul totale dei nati nella regione: un dato quest’ultimo che è però riferito al 1 gennaio 2009. Indubbiamente oggi tali dati sono più alti e, computando i clandestini, sono da ritenersi superiori di almeno il 40%.

Tabella 1
Regione% di stranieri sullapopolazione2009% di nati stranieri sul totale dei nati 2009% di stranieri sulla popolazione2011Variazionepercentuale2009-2011
Piemonte
7,9
17,3
8,9
+12,7
Valle d’Aosta
5,9
11,3
6,8
+15,3
Lombardia
9,3
19,4
10,7
+15,1
Trentino Sud Tirolo
7,7
13,9
8,7
+13,0
Veneto
9,3
20,7
10,2
+9,7
Friuli
7,7
16,6
8,5
+10,4
Liguria
6,5
13,7
7,7
+16,9
Emilia Romagna
9,7
20,7
11,3
+16,5
Toscana
8,4
16,3
9,7
+15,5
Umbria
9,6
17,6
11,0
+14,6
Marche
8,3
17,4
9,3
+12,0
Lazio
8,0
11,6
9,5
+18,8
Abruzzo
5,2
8,5
7,5
+44,2
Molise
2,3
3,6
2,8
+21,7
Campania
2,3
2,5
2,8
+21,7
Puglia
1,8
2,5
2,3
+27,8
Basilicata
2.0
2,8
2,6
+30,0
Calabria
2,9
4,2
3,7
+27,6
Sicilia
2,3
3,6
2,8
+21,7
Sardegna
1,8
2,6
2,3
+27,8
Italia
6,5
12,6
7,5
+15,4
La differenza fra i dati della prima e della seconda colonna è dovuta sia al tasso di natalità superiore delle donne straniere che al fatto che i clandestini sfuggono meno, per evidenti ragioni, alla statistica della natalità. I dati sulla presenza di stranieri sul territorio sono evidenziati da tre carte: la Carta 1 riporta la presenza puntuale (dati 2009), la Carta 2 riporta la diffusione per Province (dati 2009) e la Carta 3 la diffusione regionale (dati 2011). Per quanto riguarda il paese di provenienza, dieci comunità superano i 100.000 individui nel 2011, sempre naturalmente considerando solo i regolari: il loro numero è riportato sulla Tabella 2.
Tabella 2
Romania968.576
Albania482.627
Marocco452.424
Cina209.934
Ucraina200.730
Filippine134.154
Moldovia130.948
India121.036
Polonia109.018
Tunisia106.291
La provenienza geografica degli stranieri è evidenziata sulla Carta 4 (dati 2010). Per appartenenza religiosa, i dati sulle principali confessioni offerti dalla Caritas Migrantes per il 2010 (Dossier 2011) sono indicati sulla Tabella 3. Non è scorretto stimare una percentuale superiore di islamici fra gli irregolari.
Tabella 3
Musulmani1.505.000 (32,9%)
Ortodossi1.405.000 (30,7%)
Cattolici876.000 (19,2%)
Protestanti204.000 (4,5%)
Induisti2,6%
Buddisti1,9%
Fino a qualche anno fa si sentiva salmodiare un altro mantra oltre a quelli citati a proposito dell’immigrazione: “la percentuale di immigrati in Italia è molto inferiore a quella degli altri paesi industrializzati”, e perciò – si diceva – il fenomeno potrà essere considerato un problema solo quando la percentuale italiana sarà simile alle altre. Ora i dati sono molto cambiati e una simile posizione non può più essere sostenuta.
Oggi infatti fra i grandi paesi europei, solo la Spagna ha una percentuale di immigrati superiore all’Italia (il 12,3% della popolazione residente), mentre paesi economicamente più solidi ne hanno meno: Germania 8,8%, Gran Bretagna 6,8%, Francia 5,8%. Naturalmente va osservato che in questi paesi è più basso il numero dei clandestini ma molto più alto quello dei naturalizzati e degli stranieri di seconda e terza generazione. La media degli stranieri nell’Unione Europea nel suo complesso a fine 2009 è del 6,5% e sale al 9,4% se si considerano anche i cittadini naturalizzati e le successive generazioni. In base a queste ultime considerazioni, la percentuale di stranieri in Italia potrebbe addirittura avvicinarsi al  12%. Nel 1990 la quota di immigrati in Italia era il 4,9% del totale di quelli presenti nella Unione Europea, oggi essi sono il 15%. Un dato piuttosto inquietante è fornito dal fenomeno dei rientri che è praticamente inesistente in Italia, a fronte di situazioni assai diverse negli altri paesi europei: cioè gli stranieri che arrivano da noi tendono a stanziarsi e a non tornare al loro paese. Anche i tanti cui non è stato rinnovato il permesso entrano in clandestinità piuttosto che andarsene. Il fenomeno è evidenziato dal Grafico 1, che visualizza gli andamenti registrati fra il 2001 e il 2007 in quattro grandi Stati europei.
«L’immigrazione pone rimedio alla nostra denatalità»Da noi c’è troppa gente. La penisola è affollata. In alcune parti la soglia di preoccupazione è stata superata. Oggi i livelli di popolamento della Padania, area in cui si concentra più del 61% dell’immigrazione extracomunitaria,  sono altissimi: ci sono 254 abitanti regolarmente censiti per chilometro quadrato, contro i 158 del resto d’Italia. In Europa ne hanno di più solo Olanda e Belgio senza nessun territorio montuoso, neppure una collinetta. In Lombardia  ci sono 382 persone (esclusi ospiti e clandestini) al chilometro quadrato: al mondo sono messi peggio solo il Libano, la Corea del Sud e il Bangladesh. Nella provincia di Monza e Brianza ci sono 2.033 persone per chilometro quadrato, inferiore al mondo solo a Monaco, Singapore e alla striscia di Gaza. L’affollamento si ripercuote drammaticamente sulla qualità della vita, sull’inquinamento, sul traffico, sulla produzione di rifiuti e sui livelli dei servizi.
É del tutto comprensibile che, in una situazione del genere, la nostra gente cerchi spontaneamente di diminuire la propria concentrazione, “sfollando” quando possibile verso aree meno costipate di campagna o collina, oppure – più semplicemente – facendo meno figli. Se abbiamo deciso di diminuire di numero è una scelta libera e responsabile: abbiamo uno dei tassi di natalità più bassi del mondo e sono fatti nostri. Se abbiamo deciso di restare più larghi è per nostro vantaggio e non per fare posto ad altri. Non siamo affatto in via di estinzione ed è comunque un problema che dovremo – se mai si porrà – risolvere per conto nostro. La denatalità è strettamente collegata con il rifiuto dell’affollamento eccessivo, ma anche con l’insicurezza, con le difficoltà economiche, e con la mancanza di prospettive di libertà. Negli anni ’60 il Sud Tirolo sembrava avviato verso quella che veniva chiamata “la marcia della morte” della comunità autoctona: con l’acquisizione di larghe autonomie, la provincia di Bolzano è balzata ai vertici dei tassi di rinnovata natalità. Il giorno in cui le nostre comunità dovessero disporre di maggiori autonomie e libertà si riprodurrebbe inevitabilmente lo stesso andamento.
Oggi l’immigrazione crea ulteriore insicurezza e quindi minore natalità fra i padani a vantaggio dei foresti di qualsiasi provenienza. Non ha neppure senso spingere verso tassi più alti per evitare la formazione di vuoti e l’arrivo di ultronei: non avremmo alcuna possibilità di vincere la devastante guerra dello spermatozoo.  Il tasso di natalità delle donne italiane  è di 1,29 contro il 2,13 delle immigrate: quest’ultimo tende a diminuire nel tempo ma resta alto per le ultime arrivate, in un circolo senza fine. Nel terzo mondo i livelli sono da  tre a cinque volte superiori ai nostri: è un confronto dagli esiti scontati. La nostra gente deve essere libera di scegliere i propri tassi demografici, di pilotare la propria crescita o decrescita, anche senza che lo Stato si intrometta con incentivi economici che finiscono per  implementare ulteriormente l’altrui natalità a spese nostre.  Un popolo libero deve potersi regolare senza paura di intromissioni esterne, deve potersi alzare da tavola senza la paura che qualcuno gli freghi il posto. Quello che sta succedendo da noi ha invece assunto caratteri davvero preoccupanti.
Vale la pena di provare a ipotizzare gli scenari futuri della nostra condizione demografica. Oggi gli abitanti della penisola (fra residenti regolari e clandestini) sono circa 62 milioni. Il 35% circa è costituito da cittadini italiani residenti nelle otto regioni settentrionali, il 53% nelle regioni centro-meridionali,  e il 12% circa  da immigrati stranieri di vario genere, regolari, irregolari e naturalizzati. I tre gruppi, ai fini di questo calcolo, vanno considerati come entità omogenee:  con “padani” si intendono gli abitanti delle regioni padane (compresi gli immigrati meridionali e i loro discendenti)  e con “italiani” quelli di tutte le restanti parti della Repubblica italiana.
Confrontando gli attuali tassi di natalità dei tre gruppi, sommando il numero di ingressi clandestini e regolari, e gli effetti delle norme sui ricongiungimenti famigliari, si arriva a ipotizzare che nel 2075  circa gli stranieri saranno la maggioranza assoluta degli abitanti. Nel 2100 essi saranno circa il 68% del totale. In termini numerici assoluti, ci potrebbero essere 73 milioni di abitanti nel 2050 e 118 milioni nel 2100. L’Istat, per non diffondere allarmismi e far passare sotto traccia il problema, dice che nel 2050 gli stranieri saranno circa 12 milioni, cioè accredita una piuttosto improbabile crescita di 6 milioni (il 100%) in 38 anni, quando questi hanno avuto una crescita del 1.200% in meno di vent’anni. La situazione è descritta dal Grafico 2, che riporta la stima dei valori percentuali e assoluti della variazione di popolazione. La Padania presa separatamente potrebbe trovarsi in una situazione ancora più drammatica. Dei 28 milioni di abitanti attuali, quasi 4 milioni (il 15% circa) sono extracomunitari. Nel 2030 gli stranieri potrebbero essere anche un terzo del totale. Nel 2045 i foresti potrebbero già essere la maggioranza dei probabili 30 milioni di abitanti; nel 2060 il 60%, nel 2080 il 70% e nel 2100 l’80% dei probabili 50 milioni di abitanti della Padania del tempo.
I dati sono costruiti sugli attuali tassi di incremento dei popoli padani, degli italiani in generale e sulla media di incremento degli stranieri. In particolare, giova ricordare che, accanto a una immigrazione di genti relativamente poco prolifiche (slavi) o mediamente prolifiche (sudamericani, cinesi, filippini), gli “ospiti” provengano in larga parte da paesi con propensione all’alta o altissima prolificità, come africani, nordafricani, cingalesi  e albanesi. Questi ultimi hanno – ad esempio -  a casa loro un tasso di incremento annuo del 2,7%, che è il più alto d’Europa, con il 52% della popolazione inferiore ai 19 anni, e tutto lascia pensare che non abbiano molta fretta di modificare le loro abitudini. Nella elaborazione dei dati si è anche tenuto conto degli effetti di moltiplicazione nel tempo degli attuali incrementi, dei dati tendenziali di immigrazione regolare e clandestina, degli effetti dei ricongiungimenti famigliari, ma anche della possibile diminuzione dei tassi di crescita di tutti gli immigrati una volta stabilizzati e adattati alle nuove condizioni di vita meno “terzomondiste”. Dall’analisi di tutti questi numeri risulta piuttosto evidente come l’immigrazione non costituisca un correttivo alla denatalità italiana ma un vero e proprio processo di sostituzione.
«Gli immigrati  fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare»Questo è uno dei mantra più salmodiati. Secondo l’Istat, nel gennaio 2011 ci sono in Italia 22.832.000 occupati, 14.989.000 inattivi (fra i 15 e i 64 anni) e 2.145.000 disoccupati: l’8,6% della forza lavoro, il 29,4% di quella giovanile. Nel biennio 2009-2010 gli occupati sono scesi di 532.000 unità, cioè la disoccupazione è in aumento. Nel 2010 un quinto dei disoccupati è straniero, e cioè più di 400.000 persone;  nel 2011 essi sono saliti a 560.000. Alla fine del 2007 fra gli stranieri i disoccupati erano il 9,5% e fra gli italiani il 6,6%. Nel 2010 il tasso di occupazione degli stranieri è sceso dal 64,5 del 2009 al 63,1, e quello di disoccupazione è passato da 11,2 a 11,6. I tassi di disoccupazione più alti in assoluto nel 2010 sono quelli delle donne marocchine (25,8%) e albanesi (19,3%). Nel 2005 i cassintegrati stranieri sono stati 65.546 su 613.151: il 10,7% del totale. Nel 2010 ogni 10 nuovi disoccupati, 3 sono immigrati. Da tutto questo si deduce con grande chiarezza che il mercato del lavoro italiano è in crisi, che diminuiscono i posti di lavoro e che non c’è alcuna necessità di importare mano d’opera. Di più, che gli stranieri non vengono a sopperire a mancanza di mano d’opera ma a sostituire quella italiana, addirittura favorendone l’espulsione dal mercato.
Questo trend è dimostrato dal fatto che fra  il 2005 e il 2006 circa il 42% dell’aumento di occupati è straniero, la percentuale diventa il 66% nel 2006-07, cioè gli stranieri si inseriscono nel mercato del lavoro più degli italiani (nel 2007 il tasso di attività della popolazione italiana in età fra 15 e 64 anni è del 60,0% , quello degli stranieri del 73,2%). A questo concorre il fatto che gli italiani sono più vecchi ma anche che le retribuzioni medie degli stranieri sono inferiori del 24% rispetto a  quelle dei lavoratori italiani. Insomma non si tratta di fare lavori che gli italiani rifiutano, ma di farli a stipendi più bassi. Questo ha anche a che fare con l’identikit delle imprese che prediligono forza lavoro immigrata, che sono essenzialmente artigiane, spesso contoterziste, collocate in settori tradizionali, a basso livello tecnologico e basate su un modello organizzativo centrato sull’efficienza derivante da bassi salari più che da aumenti consistenti di produttività. Si tratta di imprese che, per caratteristiche proprie, sono più a rischio nella progressiva globalizzazione dei mercati e per la concorrenza crescente di paesi  che possono garantire produzioni a basso livello tecnologico e a costi molto bassi del lavoro. Sono perciò le attività più a rischio di chiusura e che tentano di combattere la concorrenza estera facendo lavorare manodopera immigrata, quasi una sorta di delocalizzazione del lavoro invece che dell’imprenditorialità. È un cerchio rischioso oltre che immorale: si toglie lavoro agli italiani a vantaggio di chi costa meno facendone ricadere i costi sociali sulla comunità. Senza contare che, col tempo, anche i lavoratori stranieri finiranno per costare sempre di più. Tutto questo nel campo del lavoro dipendente e scarsamente qualificato. I dati ci raccontano però anche un’altra storia.
A fine 2007 gli stranieri sul mercato del lavoro erano il 6,5% della forza lavoro totale, più della metà dei quali (il 56,2%) nei servizi, nel commercio, nell’artigianato, cioè lavoratori autonomi. Nel 2010 c’erano 213.267 imprese  con titolare straniero: il 3,5% di tutte le imprese e il 7,2% di quelle artigiane. Altri 69.439  stranieri sono soci di imprese cooperative. Il fenomeno conosce tassi di aumento vertiginosi: nelDossier 2011 le imprese con titolare straniero sono cresciute a 228.540. Secondo la Fondazione Moressa, nel 2010 ci sono ben 628 mila imprenditori stranieri (fra titolari, soci e amministratori), il 6,5% del totale degli imprenditori  in Italia e quasi il 12% di tutti gli stranieri presenti. La cosa contrasta con le più generali condizioni del mercato e costituisce una evidente anomalia con origini extra-economiche. Riesce a questo punto difficile sostenere che i cinesi – ad esempio – facciano i bottegai perché gli italiani rifiutino tale lavoro, o gli egiziani i pizzaioli, o gli albanesi gli artigiani e così via. I lavori legati al commercio sono, in particolare, un evidente segno di colonizzazione e conquista del mercato, non certo una forma di sopravvivenza economica o – meno che meno – di supporto a una manodopera carente. Insomma, più della metà degli stranieri che lavorano regolarmente si dedica ad attività che in nessun modo possono essere considerate rifiutate dagli italiani. Ancora più evidente risulta la falsità del mantra per i “lavori” in nero o addirittura illegali, cui si dedica una bella fetta di stranieri, soprattutto irregolari. Forse che non si trovano più italiani che vogliano occuparsi di spaccio, prostituzione, furti, rapine, accattonaggio eccetera? Se può avere qualche giustificazione la necessità di lavoratori dipendenti di bassa qualifica, non ne ha per i commercianti e i lavoratori autonomi e diventa addirittura offensiva per il lavoro nero, la malavita o il “non lavoro” sistematico. Se le liste di collocamento, le statistiche di disoccupazione o gli elenchi di cassintegrati si riempiono di stranieri, che senso ha farne venire altri?
Nel 2010 sono scaduti, senza essere rinnovati, 684.413 permessi di lavoro (398.136 per lavoro subordinato, 49.633 per lavoro autonomo, 220.622 per motivi di famiglia e 16.022 per attesa di occupazione) costringendo gli interessati al rimpatrio o al lavoro nero, o alla disoccupazione. Al 31 dicembre 2009 c’erano in vigore 2.637.431 permessi di soggiorno, un anno dopo essi sono 1.953.018, secondo i dati Caritas. Ci sono evidentemente numeri che non trovano alcuna logica spiegazione, men che meno delle giustificazioni “di mercato”. Calano le possibilità di lavoro e aumentano gli immigrati che vengono a cercarne. Cosa c’è dietro? Inoltre, è vero che alcuni di loro fanno lavori pesanti, socialmente squalificati o anche pericolosi ma è sicuramente vero che tali lavori non vengano assunti dagli italiani solo perché non vengono pagati abbastanza. È un problema che potrebbe essere risolto sia lasciando operare la legge del mercato (se non si trova nessuno che lo voglia fare a quel prezzo, si aumenterà il prezzo) che incentivando economicamente i lavori più disagiati.
Il primo caso non può però funzionare se il mercato viene lasciato aperto a tutti i disperati del mondo: ci sarà sempre qualcuno disposto anche solo temporaneamente ad accettare le condizioni più sfavorevoli e il prezzo sarà perciò tenuto basso. Lo fanno solo per un po’ e poi trovano qualcosa di meglio innescando così un doppio processo perverso: l’esigenza di lavoratori a basso costo diventa continua e l’operazione di abbassamento del costo del lavoro si trasferisce anche verso l’alto e finisce per intaccare tutti i livelli sociali. Anche fra la dirigenza – ad esempio – ci sarà così qualcuno disposto a prendersi qualsiasi mansione a meno. Il danno è generale con il degrado della qualità del lavoro, l’abbassamento dei salari e l’allontanamento dei lavoratori autoctoni più anziani o specializzati che non possono sostenere la concorrenza sleale dei nuovi arrivati. Questi accettano posizioni disagiate (o a condizioni meno favorevoli) per un po’ ma poi si sindacalizzano e diventano come gli altri, e così il gioco si ripete all’infinito con danno per tutti. Con alcuni miliardi di diseredati al mondo ci sarà sempre qualcuno disposto a concedersi per meno fino alla catastrofe economica e sociale.
Già oggi ci sono stranieri con ruoli dirigenziali e il processo di “scavalco” delle fasce più deboli degli italiani è favorito dai livelli di istruzione degli immigrati (il 12% ha una laurea, il 41,2% un diploma): il fenomeno del brain waste (sottoutilizzo delle capacità intellettuali) non può che essere temporaneo e nel tempo gli stranieri più giovani, più scaltri o istruiti finiranno per “scavalcare” gli italiani meno capaci relegandoli sempre in fondo a tutte le classifiche sociali ed economiche. Da mettere in conto al fenomeno immigratorio c’è  il peggioramento delle condizioni degli italiani più deboli. Si parla di lavoratori da fare venire in un paese in cui c’è un tasso di disoccupazione fra i più alti del mondo occidentale, in cui si pagano sussidi di disoccupazione e stipendi a “lavoratori socialmente utili” giusto per mantenerli, in cui ci sono milioni di pubblici dipendenti (una bella fetta dei quali “poco utili”), ci sono milioni di pensionati baby e di  finti invalidi a cui si passa una pensione a mo’ di regalia, e dove ci sono legioni di cassintegrati. Una grossa fetta della ricchezza prodotta serve per mantenere gente che non ha lavoro, che non vuole lavorare o che fa pochissimo per il vantaggio della comunità. Si tratta di una cospicua forza lavoro che potrebbe essere impiegata a uguale costo in attività più utili per tutti. In ogni caso è folle sostenere la necessità di fare venire da fuori qualcuno che faccia il lavoro che potrebbero benissimo fare tutti questi.
Se proprio ci sono attività molto sgradite (e ci sono), si deve risolvere il problema con i mezzi che abbiamo (e ne abbiamo). Se non bastano le leggi di mercato si trovi il modo di integrare gli stipendi per i lavori sgraditi ma necessari. Costerà sempre meno che mantenere tutto l’ambaradan dell’immigrazione. Si possono dare stipendi da nababbi a conciatori e raccoglitori di rifiuti e risparmieremo in ogni caso, come comunità, una montagna di soldi che ora va in assistenza, accoglienza, prevenzione, controllo, rimpatrio eccetera, degli immigrati. Ma ci sono altre strade per risolvere il problema. Ci sono in Italia migliaia di detenuti che costituiscono un costo esorbitante per la comunità: questi galeotti potrebbero occuparsi dei lavori che nessuno vuole fare. Abbatterebbero i costi del loro mantenimento, farebbero del bene a sé stessi guadagnando qualcosa, non marcendo nell’ozio e rigenerandosi col lavoro (assecondando così un diffuso cliché sociale) e contribuirebbero al bene comune, oltre che a ripagare i loro debiti con la società anche in termini monetari.
Ci sono lavori che non possono essere affidati a dei galeotti, come quello di badante. Qui si può ricorrere alle sovvenzioni (che costerebbero comunque infinitamente meno dell’assistenza generalizzata a tutti quelli che si presentano) oppure al lavoro sociale. È stata abolita la leva militare obbligatoria che è sempre stata fonte di discriminazioni e ingiustizie: si potrebbe richiedere a tutti i cittadini (indipendentemente dal sesso, dalla condizione sociale o dallo stato fisico) di  prestare per un anno, al raggiungimento della maggiore età, un lavoro veramente utile alla società in assistenza agli anziani, ai disabili, negli ospedali eccetera. Questo avrebbe un valore comunitario ed educativo straordinario e servirebbe a risolvere molti dei problemi posti dall’invecchiamento della popolazione. Alla finzione dell’immigrato che fa lavori che i nostri rifiutano ricorrono con uguale baldanza sia i sindacalisti che gli industriali. I primi devono giustificare la propria esistenza al mondo e i propri lucrosi stipendi, gli altri cercano solo i vantaggi economici di una mano d’opera sottopagata scaricandone i costi sulla comunità. Una strana alleanza fra capitalisti della mutua (letteralmente) e sindacalisti che viene pagata da  Pantalone e dalle fasce più deboli della società.
Una superficiale occhiata ai numeri “ufficiali” genera ulteriori perplessità (o certezze). Gli iscritti all’Inps sono nel 2010 circa 2 milioni. di questi 628 mila sono imprenditori o lavoratori autonomi e 560.000 percepiscono un sussidio di disoccupazione. Se si sottraggono anche i 294.000 che ricevono una pensione, si arriva ad avere circa 520.000 stranieri che presumibilmente: 1) hanno un lavoro regolare, 2)  sono lavoratori dipendenti, 3) fanno un lavoro che altri italiani potrebbero fare, ma che forse non vogliono fare. Quanti sono, in definitiva, gli stranieri che davvero fanno un lavoro che gli italiani rifiutano? Se va (molto) bene arrivano al 5% dell’intero numero degli immigrati. Cioè, per ogni straniero che fa un lavoro disdegnato dagli italiani, ce ne sono 20 che lavorano per sé, che tolgono il lavoro a un italiano, che lavorano in nero, che non lavorano, che fanno lavori non proprio commendevoli, che vengono mantenuti da altri.
«Abbiamo il dovere della solidarietà»La solidarietà e l’amore per il prossimo rientrano sicuramente fra i doveri cristiani che sono parte essenziale della nostra cultura, ma che meritano alcune considerazioni: innanzitutto il prossimo (lo dice la parola) è chi ci è prossimo, vicino, parente, famigliare. Il nostro prossimo vero è chi appartiene alla nostra comunità antica, è chi ha sottoscritto con noi un contratto sociale anche istituzionale. Poi – se è possibile  – ci si dedica agli altri,  ma questa estensione non può comunque essere intesa come un dovere comunitario: può e deve essere solo una scelta singola che non deve coinvolgere gli altri. Il principio di porgere l’altra guancia è strettamente personale: non si può porgere l’altra guancia di nostra madre o del nostro vicino di casa. La generosità e l’umiliazione valgono solo per la nostra guancia. Anche nella comunità padana, considerata (spesso a torto) opulenta, ci sono molte migliaia di indigenti, di disabili, di anziani, di malati, di sfortunati che hanno bisogno della vera solidarietà e assistenza della nostra gente. Ci sono sacche geografiche di povertà straordinaria in aree marginali, di montagna ma anche di città, che richiederebbero interventi sostanziosi. A questi dobbiamo dedicare le nostre risorse e attenzioni. Oggi la Padania è una delle aree con la più alta concentrazione di volontariato e di assistenza (un tempo si sarebbe detto “di carità”) ma non basta: dobbiamo aumentare i nostri sforzi per i nostri fratelli meno fortunati. Ogni energia dedicata ad altri è tolta ai nostri: ogni nuovo arrivato da fuori toglie spazio e attenzione ai nostri. Ogni nuovo immigrato peggiora le condizioni dei più deboli dei nostri. Più avanti si esaminano i dati – espressi dalla stessa Caritas – che mostrano come i numeri del disagio “autoctono” siano in preoccupante aumento.
Noi non possiamo farci carico di tutti i diseredati del mondo che sono centinaia di milioni. Qualcuno ha festeggiato nei giorni scorsi la nascita del settemiliardesimo abitante del pianeta: un atteggiamento delirante davanti a quella che sta diventando una vera emergenza ambientale. Cento anni fa c’erano al mondo 1,587 miliardi di persone;  nel 1940 erano 2,196 miliardi. Negli ultimi sessant’anni la popolazione globale è più che triplicata. Ogni anno la popolazione del mondo aumenta di circa 80 milioni di persone, se aprissimo indiscriminatamente le porte potremmo ovviare alla altrui esuberanza testosteronica per non più di 3 o 4 mesi e poi verremmo annientati. Lo stesso vale per i rifugiati, per le vittime di guerre e carestie, e di persecuzioni politiche. Lo status di esule politico viene concesso con troppa facilità. L’articolo 10 della Costituzione stabilisce che sia concesso diritto di asilo «allo straniero al quale sia impedito di esercitare le libertà democratiche». Oggi il mondo pullula di guerre e di regimi poco democratici: è perciò estremamente facile essere (o farsi passare per) un perseguitato politico, profugo o vittima di qualche carestia o sciagura ambientale.  Nel 2006 le richieste di asilo sono state 10.348, nel 2008 sono salite a 30.324. Non tutte vengono accolte: in ogni caso c’erano nel 2010 circa 55.000 rifugiati politici riconosciuti. Gli ultimi avvenimenti in Nord Africa hanno accresciuto di molto le richieste.
I rifugiati godono di speciali privilegi. Lo Stato provvede al loro sostentamento attraverso un “Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati” (Sprar) con un contributo di assistenza fornito dalle Prefetture. Ogni rifugiato riceve al suo arrivo un contributo di 976,15 Euro  per i primi 35 giorni (che si riducono a 557,80 in caso di respingimento della domanda d’asilo). In seguito, secondo la Fondazione Leone Moressa, lo Stato affronta una spesa diretta di 14.600 Euro l’anno (40 Euro al giorno) per persona e altrettanti in prestazioni indirette (spese sanitarie e servizi generali dello Stato, calcolati per analogia, considerando che tali voci impegnano circa la metà del Pil nazionale): quindi allo Stato ogni rifugiato politico costa circa 29.200 Euro l’anno. Per i 55.000 rifugiati del 2010, la spesa dovrebbe perciò essere di un miliardo e 600 milioni di Euro. Un decreto legislativo del novembre 2007 stabilisce inoltre che i rifugiati possano accedere al pubblico impiego in deroga alla necessità di avere la nazionalità italiana e che godano di tutti i privilegi dell’assistenza sanitaria, del sostegno allo studio e dell’integrazione all’attività lavorativa. Se i rifugiati che hanno un lavoro non arrivano, con tre figli a carico, a un reddito di 23.200,30 Euro  l’anno, viene loro concesso un sussidio integrativo: un’altra voce di spesa non calcolabile.
Oltre a tutto questo si devono aggiungere stanziamenti che sono impossibili da quantificare, che vanno dai corsi di italiano per rifugiati agli sconti sui mezzi pubblici in molti comuni, dal sostegno assistenziale e culturale, all’assistenza legale e altro:  il Consiglio Italiano per i Rifugiati provvede a servizi di orientamento legale, supporto sociale e attività di cura e riabilitazione dei “rifugiati sopravissuti a tortura”. A essi si interessa una miriade di associazioni di volontariato e d’altro genere, oltre che un numero imprecisabile di provvedimenti legislativi settoriali. Un decreto del 1996 stanziava, ad esempio,  35.000 Lire giornaliere per ogni zingaro profugo dalla ex Jugoslavia. Il costo complessivo dell’asilo politico è impossibile da quantificare ma non è certo inferiore ai 2 miliardi. La cifra è destinata a crescere esponenzialmente con gli ultimi massicci arrivi.
Il mondo produce una quantità impressionante di esuli veri e fasulli: è impossibile accoglierli qui senza autodistruggerci e non possiamo certo permettercelo. Un corollario al dovere dell’accoglienza è rappresentato dall’altro  mantra che ripete che “anche noi siamo stati paese di emigrazione e che perciò dobbiamo essere ospitali”. La nostra emigrazione è stata il risultato della formazione storica dello Stato italiano e non è stata una bella cosa: oggi è ancora a causa delle inefficienze e dell’esosità dello stesso Stato che siamo costretti a subire l’immigrazione. La causa resta la stessa, aumentano e si diversificano le vittime. Ci sono comunque differenze notevoli fra le due situazioni storiche: i nostri emigrati andavano dove c’era posto e bisogno, e quando non è stato così ne hanno subito le conseguenze. Ci andavano sapendo di ricevere una concessione e non con l’atteggiamento di chi pretende diritti e privilegi. Così la stragrande maggioranza di loro rispettava le leggi del posto, e viveva restrizioni e patimenti come un normale viatico e cercava di integrarsi al più presto. Ci sono stati mascalzoni e mafiosi che si sono comportati in ben altro modo ma questo – pur rendendone più difficile l’assimilazione – non ha contagiato il rispetto e i vantaggi che tutti gli altri si sono duramente conquistati, né può oggi in alcun modo costringere gli attuali cittadini italiani– soprattutto quelli delle aree esenti da vocazioni ed esportazioni malavitose – a subirne le conseguenze in una sorta di purificazione collettiva celebrata subendo come ineluttabili e “meritati” tutti i guasti dell’immigrazione. È  invece significativo di una mentalità carica di buonismo masochista che i complessi di colpa vengano addossati proprio principalmente a quelle comunità che non hanno avuto responsabilità nella cattiva nomea di certa parte della vecchia emigrazione italiana.
Un altro strampalato corollario è costituito dal descrivere l’immigrazione come una sorta di “giusta” punizione per i nostri peccati colonialisti del passato. L’inconsistenza dell’argomentazione cade di fronte ad alcune semplici considerazioni: 1) eventuali colpe di passate generazioni non possono essere addebitate a quelle presenti anche per rispetto di un elementare principio giuridico, oltre che per normale moralità; 2) se c’è stato un colonialismo italiano, esso è stato voluto da una ristretta casta politico-economica e non certo dal popolo che ne è spesso stato vittima pagandolo in tasse e sangue; 3) il colonialismo italiano ha precise responsabilità storiche (peraltro già pagate) nei confronti di alcuni paesi che però non sono quelli da cui proviene l’attuale immigrazione; 4) tutti nel corso di millenni sono stati colonizzati od oppressi da qualcuno e questo non può costituire titolo di rivendicazione perpetua.
«La società multirazziale è l’ineluttabile futuro di tutti»La società multirazziale è una ineluttabile evoluzione del nulla. È l’invenzione e lo strumento che viene oggi tirato fuori da chi vuole distruggere: dopo avere usato la lotta di classe senza raggiungere gli obiettivi devastanti che si era prefisso, oggi impiega lo scontro etnico con lo stesso fine di scardinare le strutture comunitarie esistenti, in un generico e pericoloso slancio rivoluzionario. Il rimescolamento delle culture e l’annientamento delle diversità, la distruzione dei riferimenti tradizionali e lo spaesamento sono strumenti di chi vuole annientare bellezze, specificità e libertà.
Ci sono ambientalisti che teorizzano la biodiversità, che fanno giustamente guerra contro l’introduzione di specie animali e vegetali esogene in habitat diversi, ma che favoriscono l’immigrazione selvaggia, il mescolamento e la distruzione delle culture diverse. Non vale l’attenzione per le specificità culturali nel rispetto per la biodiversità? L’integrazione non ha mai funzionato: nei posti dove si sono trovate a convivere comunità diverse si sono generati ghettizzazione e conflitti. La multietnicità porta generalmente a un aumento della criminalità e dei problemi sociali. È così anche da noi, dove  non siamo mai veramente riusciti ad assorbire del tutto le migrazioni interne, che pure presentano diversità molto minori. È impossibile integrare comunità, come – ad esempio – quella cinese (che ovunque nel mondo si è rinchiusa in ghetti autogestiti), o quella islamica che è aggressiva,  invasiva e intollerante. Lo sradicamento ha come conseguenza la distruzione delle culture di chi migra e di chi li ospita. È la distruzione di ogni identità. È proprio in quest’ottica che l’immigrazione è uno straordinario strumento del processo di gobalizzazione, ma anche – nel nostro caso – è un mezzo impiegato dal centralismo italiano per distruggere le identità locali proprio in un momento in cui queste mostrano di risvegliarsi con decisione, è un modo per imporre una sorta di solidarietà italiana (riproponendo una identità davvero esangue) sulla base delle maggiori differenze rispetto agli altri. L’italianismo di destra e quello di sinistra sono, come sempre, simili e alleati: gli uni per riproporre una italianità inventata, gli altri per arrivare a un mondialismo annientante.
É interessante su questo tema un affettuoso passo della presentazione del Dossier 2011: «Gli immigrati sono propensi a frequentare gli italiani e hanno anche voluto festeggiare i 150 anni della nostra storia unitaria, mostrando un sincero interesse a sentirsi parte viva del Paese e ad essere riconosciuti come nuovi cittadini; tuttavia, con grande realismo sintetizzano in due termini ciò che li preoccupa: “permesso di soggiorno” e “razzismo”, cioè la mancata garanzia di un inserimento stabile e di una solida prospettiva interculturale basata sulle pari opportunità». C’è davvero il campionario di gran parte delle argomentazioni emotive e ideologiche cha stanno dietro l’atteggiamento incondizionatamente accoglientista della Caritas, che sfoggia per l’occasione anche un tasso di patriottismo poco consono con la sofferta storia del cattolicesimo italiano degli anni risorgimentali e del processo unitario.
Nel discorso sulla multiculturalità richiede una breve considerazione il ruolo dell’Islam, cui fa riferimento la maggioranza relativa degli immigrati. I musulmani mostrano una propensione all’integrazione tendente allo zero e invece una forte vocazione – supportata dalla loro religione-ideologia – all’occupazione territoriale sostituendo le modalità di vita delle comunità in cui si insediano con quelle derivate dalle proprie credenze. Questo pone gli islamici in una condizione diversa da quella di tutti gli altri immigrati, che non può essere affrontata solo in termini di analisi sociale ed economica ma che necessita di speciali attenzioni e difese. Non è immigrazione, intrusione o penetrazione: è invasione caratterizzata da elementi di violenza, arretratezza e intolleranza che contrastano con i fondamenti della civiltà occidentale. Con (si spera) involontario gusto per l’umorismo macabro, il Dossier 2011 scrive: «Nel primo semestre del 2011, i drammatici eventi del Nord Africa hanno evidenziato ancora una volta che è possibile favorire l’incontro tra musulmani e cristiani». Copti compresi, naturalmente.
«Gli immigrati sono una ricchezza sociale»Prima ancora dei costi in denaro, più o meno facilmente quantificabili, l’immigrazione porta una serie di svantaggi sociali di dimensioni infinitamente più grandi degli eventuali vantaggi. Taluni vedono la presenza di gente proveniente da tanti paesi diversi come un arricchimento culturale, come una espansione di possibilità di conoscenza, come una occasione di benefica contaminazione – e perciò di rivitalizzazione – della nostra cultura un po’ appesantita dal tempo. Può anche darsi che succeda qualcosa del genere, ma occorre notare che gli apporti culturali esterni avvengono spesso ai livelli più bassi delle loro potenzialità: raramente gli immigrati sono la migliore espressione delle società da cui provengono e la frammentazione stessa delle etnie che compongono l’immigrazione riduce gli apporti positivi a scampoli un po’ banali. Così la “contaminazione” culturale finisce per essere confinata  ai negozi etnici, ai ristoranti, alla musica più dozzinale e commerciale, alle treccine nei capelli e alle perline al polso: triste surrogato dei souvenir di viaggi turistici in paesi esotici. Invece i danni sono pesanti. Si comincia con i fastidi della difficile convivenza fra culture, dalle piccole noie della forzata coabitazione e si arriva ai drammi dolorosi della degenerazione dei rapporti interpersonali. Non è evidentemente solo un problema di orari, afrori di cucina, rumori, maleducazione o arroganza – che nella quasi totalità dei casi coinvolgono i ceti più deboli e poveri della popolazione italiana – ma si arriva molto spesso ad attriti duraturi anche violenti, o a dolorose esperienze.
Fra il 1996 e il 2009 ci sono stati 257.762 matrimoni misti, 32.000 solo nel 2009 (21.357 secondo la Caritas).  Si calcola che le coppie miste, sia sposate sia di fatto, siano state in tutto 590 mila. Tre unioni su quattro si concludono secondo l’Ami (Associazione Matrimonialisti Italiani) con una separazione. Molto spesso le cronache ci consegnano storie molto dolorose e drammatiche che coinvolgono soprattutto i figli di coppie interetniche. Negli ultimi anni i matrimoni misti sono diminuiti grazie alla nuova normativa che richiede per i contraenti il permesso di soggiorno: il matrimonio era sovente impiegato come un mezzo per ottenerlo. Spesso è una scorciatoia anche per l’acquisizione della cittadinanza (più di metà dei 600 mila nuovi cittadini lo sono diventati sposando un italiano) o per accedere alla pensione di reversibilità.  I casi accertati di matrimoni fra giovani straniere e anziani italiani sono circa 3.000: neppure pochi se si considera che il fenomeno è solo agli inizi e che comunque ogni giovane vedova (o vedovo) percepirà la pensione per 30-50 anni: un’altra ventina di milioni che vanno in un sussidio molto “creativo” all’immigrazione. Un dettaglio ignobile se si considera che la metà dei pensionati italiani vive con meno di 500 Euro al mese.
Assistiamo a un generale degrado dei rapporti umani, alla comparsa di comportamenti che sembravano spariti o marginalizzati nelle nostre comunità: l’imposizione di condizioni subordinate per le donne, le mutilazioni, i matrimoni imposti, la segregazione, la riduzione in schiavitù di lavoratori e prostitute, il lavoro minorile, l’obbligo dell’accattonaggio eccetera. Secondo la Commissione Affari Sociali della Camera fra il 30% e il 36% delle prostitute operanti in Italia (fra 50 e 70 mila) sono straniere, la quasi totalità delle quali in condizioni di pesante sfruttamento, se non di schiavitù. C’è il degrado della qualità dell’istruzione scolastica in classi appesantite da troppi alunni stranieri che rallentano inevitabilmente il passo dell’apprendimento. C’è poi il ritorno di malattie che erano state debellate e che vengono importate da terre in cui sono ancora endemiche, che prosperano grazie ai mancati controlli sanitari, alle scarse norme igieniche e a condizioni di promiscuità, che ripropongono antiche paure. É infine incommensurabile il danno che l’immigrazione porta alla coesione sociale delle nostre comunità e ai loro caratteri identitari, alle culture locali già rese fragili  delle migrazioni interne, dalla globalizzazione e dall’inurbamento di grandi masse umane.
Spesso sono le appartenenze religiose a costituire un problema di rapporti non sempre facili o pacifici: se il contrasto non esiste con stranieri di fede cristiana (cattolica, ortodossa o altro) e neppure per indù e buddisti, esso si pone quasi sempre in termini duri con i musulmani, che non accettano valori e sistemi di vita diversi dai loro: la parità dei sessi, il rispetto per gli animali, la libertà dei figli. Il fatto che tendano ad aggregarsi in comunità chiuse non fa che incrementare la loro aggressività e intolleranza. La propensione a costruire ghetti etnici non aiuta certo l’integrazione: troppo spesso non c’è gente che aspira al ruolo – come sostiene certa retorica –  di “nuovi italiani”, ma gruppi che vogliono restare quello che sono, sovente anche con atteggiamento di sfida e contrapposizione. Oltre al già citato caso dei musulmani, ci sono almeno altre due comunità straniere che neppure provano a integrarsi né fingono di farlo: i cinesi e gli zingari. I cinesi non si mischiano con gli altri: pochi o tanti, costruiscono delle comunità chiuse, delle enclavi cinesi, dei piccoli pezzi di Repubblica Popolare sparsi come colonie fortificate in giro per il mondo. I cinesi se ne stanno fra cinesi, parlano e mangiano cinese, si sposano, curano, litigano e ammazzano fra di loro.
Il solo contatto volontario che hanno con gli altri è commerciale: sono abilissimi nel rifilare  merci e pietanzini misteriosi ed esotici. Vivono in quartieri dove tutto – arredi, colori, afrori, comportamenti e leggi – li trasforma in scampoli di Cina paracadutati nel mondo. Si dice che gli immigrati cinesi siano i meno fastidiosi in quanto a criminalità: essi raramente  commettono reati contro gli italiani, li ignorano, e si fanno tutto fra di loro.  Se anche uno scippo è una forma – forse eccessivamente “solidale” – di contatto, loro se li fanno in casa. Le Chinatown non sono ghetti: per loro è ghetto tutto quello che c’è di fuori. I cinesi non fanno lavori che gli altri rifiutano, semplicemente sostituiscono gli altri sul territorio. Si è mai vista una badante o un operaio cinesi che non lavorino per altri cinesi? Loro fanno gli imprenditori, i commercianti, i ristoratori che non sono occupazioni disdegnate dai nostri. Producono ricchezze che non si mescolano con quelle del posto: vengono reinvestite all’interno della comunità o prendono la strada della Cina. Acquistano case e  spicchi crescenti di paesaggio urbano nell’ottica di espellere gli altri e di costituire brani di Cina. Anche sui numeri c’è qualcosa che non quadra: l’ultimo rapporto della Caritas Ambrosiana  dice – ad esempio – che a Milano ci sarebbero 18.946 cinesi. Il dato contrasta in maniera sensibile con la percezione che si ha girando per le strade, osservando il numero di botteghe e di case occupate da cinesi e la loro proliferazione prodigiosa. É piuttosto evidente che si tratta di un dato infedele. Nel 2010 i cinesi di Lombardia hanno trasferito legalmente 286 milioni di Euro al loro paese di origine, con un aumento di 39 milioni in un anno. Risulterebbe che ognuno dei 41.291 cinesi della regione  abbia spedito in Cina  circa 7.000 Euro, e cioè il 56% di quanto le statistiche (Fondazione Ismu-Osservatorio regionale)  indichino come guadagno annuo di ogni immigrato. I casi possibili sono: 1) il  numero di cinesi in Lombardia (e in Italia) è molto superiore a quello ufficialmente indicato; 2) i cinesi sono spropositatamente ricchi ma evidentemente sono anche evasori totali; 3) i proventi esportati in Cina derivano da altre attività e fonti che non sono quelle di lavoro “normale”; 4) i frugalissimi cinesi vivono con 480 Euro al mese, tasse comprese. La cosa è ancora più inverosimile, visto che la Cgia di Mestre dichiara che gli imprenditori cinesi in Lombardia siano nel 2011 ben 10.998. In ogni caso i cinesi dispongono di risorse economiche tali da acquistare sistematicamente esercizi commerciali e abitazioni, e spesso pagarli in contanti. Un altro dato interessante è che, costituendo  il 4% della popolazione straniera, hanno esportato il 23,2% delle rimesse totali. La domanda a questo punto è: chi da i numeri, chi li controlla, chi ci crede?
Altro caso paradigmatico è quello degli zingari. L’Opera Nomadi dichiara che nel 2008 c’erano in Italia 160.000 zingari, di cui 70.000 cittadini italiani, da tempo presenti sul territorio. Quelli stranieri sono il frutto delle ondate di arrivi degli ultimi decenni. Essi sarebbero poco più dell’1% dei 15 milioni di zingari sparsi per il mondo. Anche in questo caso il numero complessivo è per lo meno opinabile per le peculiarità insediative dei nomadi e per la confusione statistica che li riguarda: a volte sono registrati come gruppo nazionale a sé, altre come bosniaci, serbi, montenegrini e, soprattutto, rumeni.
In ogni caso il livello di integrazione degli zingari è praticamente nullo. Costituiscono una comunità socialmente chiusa come quella cinese ma non dispongono della stessa autosufficienza economica: vivono in forma del tutto parassitaria sul corpo della società che li “ospita”. Da molto tempo non si dedicano neppure più a quelle attività lavorative tradizionali (calderai, allevatori di cavalli) che avevano assicurato loro una nicchia peculiare nei rapporti con il resto del mondo: oggi vivono principalmente di carità, di usura e di furti, anche se non è politicamente corretto dirlo. In ogni caso non è proprio possibile parlare né di integrazione né di interscambio sociale, a meno che non si voglia considerare tale l’accattonaggio e il borseggio. Essi costituiscono per le comunità in cui si insediano un costo secco, difficilmente quantificabile per la “evanescenza” stessa dei loro prelievi, per la complessità della loro gestione frastagliata in cento associazioni ed enti pubblici coinvolti, e dispersa in una miriade di interventi diversi. A questo vanno aggiunti i costi – alti ma di difficile individuazione – collegati agli sgomberi, all’attività di polizia e giudiziaria, alle difese passive dei cittadini e alle conseguenza della presenza di zingari sui valori immobiliari delle aree frequentate.
«Il tasso di criminalità degli immigrati è uguale a quello degli italiani»Uno degli aspetti più truci dell’intera vicenda si ha con la criminalità. Alcune anime belle dicono e scrivono che la propensione a delinquere di italiani e stranieri sia la stessa. Un rapporto della Fondazione Migrantes sostiene che gli immigrati regolari abbiano lo stesso tasso di devianza degli italiani, sostenendo che l’eventuale problema riguardi solo gli irregolari e che il loro comportamento deriverebbe proprio dalla loro posizione. Il teorema cioè sostiene che per eliminare la criminalità straniera si debba eliminare l’illegalità regolarizzando tutti gli stranieri.  Vengono citati dati Istat secondo i quali il tasso di criminalità degli immigrati regolari sarebbe fra l’1,23% e l’1,4%, contro lo 0,75% degli italiani (che è comunque quasi la metà).  I numeri raccontano una storia più articolata: un rapporto del Ministero degli Interni del 2006 dice che gli immigrati costituiscono il 51% dei denunciati per rapina o furto in abitazione, il 45% per rapina, il 39% per violenze sessuali, il 36% per gli omicidi consumati, il 31% di quelli tentati e il 27% per lesioni colpose. I numeri percentuali sull’incidenza dei soli immigrati irregolari sono significativi (il 74% per omicidi, il 72% per tentato omicidio, il 62% per violenza carnale e il 63% per sfruttamento della prostituzione) ma non bastano a giustificare la pretesa “normalità” dei regolari.
Nel giugno 2011, secondo i dati del Ministero della Giustizia, su  67.394 detenuti nelle patrie galere, ben 24.973 sono stranieri: il 37,1%. Di questi 1.182 sono donne. A meno di pensare che i tribunali siano pieni di razzisti che infieriscono sui foresti, questo significa che ben più di un terzo dei delitti sono commessi da stranieri. Considerando che il 74% dei reati denunziati resta impunito, e che una quantità imprecisata non viene neppure denunciata, viene facile pensare che gli stranieri – per la tipologia dei reati e per la loro estraneità alle comunità dove vengono commessi -  siano meno facilmente smascherati dei malviventi indigeni. Questo porta a pensare che l’incidenza straniera sulla malavita sia molto superiore a quella indicata dai numeri. Solo basandosi sui dati ufficiali, c’è un galeotto ogni 1.310 italiani, e uno ogni 240 stranieri, clandestini compresi: più di cinque volte tanto. Il dato diventa ancora più significativo se lo si regionalizza. Del totale dei detenuti, il 17,3% è nato in Padania, il 37,1% è straniero e il restante 45,6% è nato nell’Italia peninsulare. Ci sono così un galeotto ogni 968 meridionali e ogni 2.000 padani, sempre solo considerando il luogo di nascita. Questi rapporti sono evidenziati dal Grafico 3, nel quale  con “padani” si intendono i nati nelle regioni padane (figli di immigrati italiani e di stranieri naturalizzati compresi) e con  “italiani” tutti quelli nati nel resto del territorio della Repubblica.
Ma quanti sono gli italiani (ma anche gli stessi stranieri) che sono stati vittime della criminalità di importazione? Quanti cittadini sono stati uccisi, intenzionalmente o accidentalmente? Quanti sono stati feriti, stuprati, aggrediti, rapinati da stranieri? Quante sofferenze sono state causate da delitti e reati commessi da stranieri? É impossibile quantificare i costi umani ed economici causati da malavitosi, bande e criminalità organizzata di origine foresta. Quante spese mediche, costi di infermità, ma anche solo valori rubati, investimenti in sistemi di difesa, assicurazioni o impianti contro i furti di auto o nelle case vanno imputati alla voce “immigrazione”? Si dirà che delitti e reati sono anche opera di cittadini italiani, che anche i “nostri” delinquono e procurano danni ingenti alla comunità. É  vero, ma proprio per questo non si capisce perché si debbano importare delinquenti dall’estero, o perché si debba subire un incremento del 37,1% di detenuti e presumibilmente di reati. Senza l’immigrazione straniera, detenuti e reati diminuirebbero di (almeno) più di un terzo. Fino a qui si fa un esame, pur sommario, dei numeri. Nelle questioni di sicurezza e di criminalità ha però notevole peso la massa di informazioni che passa sui mezzi di comunicazione che – assieme alle esperienza personali e di gruppo – costituisce la cosiddetta “percezione” dell’influenza straniera  sulla qualità della vita e, in particolare, sugli aspetti che coinvolgono appunto la sicurezza e la criminalità.
Da anni in Internet, sul Forum “Politica in rete”, è aperto un “Archivio delle malefatte allogene”, che raccoglie le notizie di stampa sui crimini più eclatanti commessi da immigrati e che costituisce un documento davvero impressionante sull’argomento. In ogni caso, non c’è praticamente più cittadino italiano che non abbia avuto esperienze sgradevoli con qualche straniero: dalle manifestazioni fastidiose ma non pericolose, fino agli atti malavitosi più odiosi e violenti. Con tutto questo, una annotazione particolare merita l’atteggiamento della nostra gente di fronte a un fenomeno che assume spesso caratteri di fastidio, insopportabilità e addirittura pericolosità. Pur sottoposta a vessazioni  e spesso accusata di grettezza e di razzismo con eccessiva leggerezza, la nostra gente mantiene un comportamento corretto, rispettoso e paziente, ai limiti del masochismo.  Secondo il Dossier 2011, nel 2010 l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali  ha avuto 766 segnalazioni, accogliendone come pertinenti solo 540, il 70%. È davvero incredibile come, confrontandosi con 6 milioni di persone, molte delle quali non hanno atteggiamenti propriamente consoni alle nostre più consolidate ritualità di buon comportamento, la nostra gente riesca a contenere reazioni entro entità assolutamente trascurabili: una denuncia ogni 100mila abitanti e ogni 11 mila immigrati.
«I nuovi cittadini pagheranno le nostre pensioni»Grande risalto è stato dato al fatto che i contributi degli immigrati hanno aiutato l’Inps a rimettere un po’ a posto i conti. In effetti l’arrivo di tanti nuovi contribuenti che non percepiranno pensioni per un po’ di tempo è salutare. Si tratta però di una situazione temporanea perché, a partire da 20 anni da oggi (quando a maturare pensioni di vecchiaia o anzianità cominceranno a esserci moltitudini di immigrati), si comincerà a riproporre anche nella comunità foresta lo stesso schema attuale di un rapporto fra lavoratori e pensionati sbilanciato a favore di questi ultimi, a meno che non si conti su un continuo afflusso di immigrati giovani paganti. In tale caso si tornerebbe in qualche modo al sistema a ripartizione su cui in anni di boom demografico si era basato il sistema pensionistico, facendo saltare ogni buona intenzione di trasformarlo in un sistema a capitalizzazione. Insomma gli immigrati non risolvono i problemi del sistema pensionistico italiano ma lo spostano solo un po’ più in là nel tempo. Oggi il rapporto fra pensionati e abitanti è di circa 1 a 5 per gli italiani e di 1 a 25 per gli stranieri: il divario diminuirà costantemente fino a stabilizzarsi sullo stesso rapporto a meno che – come detto – il numero degli immigranti non continui a crescere in misura esponenziale.
Dai dati Inps più recenti e completi disponibili (III Rapporto su immigrati e previdenza negli archivi Inps), risulta che nel 2004 gli stranieri iscritti ai ruolini pensionistici erano 1.537.380, e cioè meno della metà  del totale degli immigrati di allora. Non cambia la situazione nel 2010, quando – secondo la Caritas – gli iscritti all’Inps sarebbero circa due milioni, e cioè circa il 40% dei regolari. Questi versano un totale di 7,5 miliardi in contributi previdenziali; nel 2007 le pensioni erogate erano 294.025 con una spesa annua di 2 miliardi e 564 milioni. Oltre a queste c’è stata una cifra imprecisata ma piuttosto alta per prestazioni sociali d’altro genere: ci sono, ad esempio, 380 milioni per 292.130 assegni per nucleo famigliare, sussidi ai disoccupati (125.098 nel 2005) e ai cassintegrati (65.546 nel 2005). La Fondazione Moressa  dice che nel 2010 il 23,8% degli stranieri iscritti all’Inps è disoccupato:  circa 560.000 utilizzando i dati Caritas. Calcolando un sussidio minimo di 530 Euro, significa che nel 2010 la spesa in sussidi di disoccupazione a stranieri è di circa 3,5 miliardi. Il Dossier 2010 registra versamenti per 7,5 miliardi (6,5 di lavoratori dipendenti, 0,7 di lavoratori autonomi e 0,2 di lavoratori parasubordinati) e uscite di 1 miliardo (0,4 per trattamenti famigliari e 0,6 per trattamenti pensionistici) che contrastano fortemente con i 2,564 miliardi dichiarati dall’Inps nel 2007 (che possono da allora solo essere aumentati), e con i 3,5 miliardi di sussidi di disoccupazione.
Ci sarebbe così nell’insieme oggi un saldo attivo di 6,5 miliardi secondo la Caritas. In realtà, il saldo attivo non arriva a 2 miliardi l’anno. Occorre notare che il bilancio è anche migliorato da quando è stata soppressa la facoltà prima concessa agli immigrati di farsi rimborsare i contributi versati in caso di rimpatrio, rafforzando la tendenza a permanere in Italia. Per essere un gruppo sociale la cui presenza viene giustificata come “forza lavoro”, occorre notare come la percentuale di stranieri che pagano i contributi previdenziali sia sospettosamente bassa. Questo significa che la più parte di loro non paga i contributi sociali perché lavora in nero, o evade, o non lavora affatto, o fa “lavori” (criminalità, droga e prostituzione) che non hanno vocazione né possibilità di essere assoggettati a contributi.
I numeri non tornano. Come si collegano con i 4.570.317 stranieri regolarmente presenti e con gli iscritti ai ruolini Inps? Comprendendo anche gli irregolari, meno di un terzo degli stranieri versa contributi previdenziali: una percentuale inferiore a quella del totale degli italiani al di sotto dei 65 anni (39.318.000 nel 2010)  che sono regolarmente occupati (più di 21 milioni), e cioè il 54,7%. Risulta perciò piuttosto evidente (e preoccupante) che l’attuale attivo del bilancio previdenziale degli stranieri sia rapidamente destinato a esaurirsi (salvo una crescita esponenziale degli immigrati e una irrealistica dilatazione del mercato del lavoro) e che perciò la presenza degli stranieri non risolverà ma aggraverà i problemi pensionistici. É del tutto falso affermare che gli stranieri pagheranno le nostre pensioni: lo fanno in parte marginale oggi per la loro età media più bassa, ma impoveriranno ulteriormente in avvenire le sempre più esigue risorse del paese.
 «Gli immigrati sono una risorsa economica»«Gli immigrati sono una ricchezza» aveva sentenziato sicura una ministra che si era fatta affettuosa promotrice di una legge estremamente accogliente e permissiva. Qualcuno ha anche cercato di quantificare in qualche modo tale “ricchezza” e le tre affermazioni più gettonate che risultano da tale preoccupazione sono: 1) pur costituendo solo il 5,7 della popolazione residente, gli immigrati contribuiscono per l’11,1% alla produzione del Pil (Caritas su stima Unioncamere, 2008); 2) nel 2010 gli immigrati hanno pagato in tasse contribuendo alla cassa comune 10.827 milioni di Euro, costando alla comunità solo 9.950 milioni, con un utile di 877 milioni (il Dossier 2011 porta tale avanzo a 1,5 miliardi); 3) senza gli immigrati, l’economia del paese si fermerebbe. Vale la pena di esaminare e confutare tali affermazioni, considerando innanzi tutto la “precarietà”, se non peggio, dei dati su cui si basano. Si tratta di dati disomogenei, per periodi diversi, estrapolati con criteri mutevoli da organismi vari: come già osservato, le voci sono sempre disaggregate, scorporate e sparse in mille capitoli diversi di spesa. Non guasta neppure ricordare che i numeri sono quasi sempre forniti da strutture partigiane, che sono nate per dimostrare la bontà dell’immigrazione e che a volte ricevono vantaggi grazie a essa.
La prima affermazione  («gli immigrati contribuiscono al Pil in misura percentuale molto maggiore degli italiani») “bara” – per cominciare – sull’incidenza demografica degli stranieri: il conto va effettuato  sulle fasce di età “produttive”, comprese fra i 15 e i 65 anni, nelle quali gli stranieri regolari (dato 2010, ma piuttosto costante negli ultimi anni) sono già l’8,4% della popolazione. A questo si aggiunga che la struttura demografica degli stranieri è diversa, con prevalenza di lavoratori singoli, per cui il rapporto più corretto degli stranieri sulla popolazione attiva in età “produttiva” si avvicina e supera il 14%.
Ancora meno credibile è il dato sulla produttività. Il Pil italiano complessivo nel 2008 era di 1.272.852 milioni di Euro: secondo la Caritas gli stranieri ne avrebbero prodotto l’11,1%. E cioè 141.287 milioni di Euro, che stridono con i 3.300 milioni che gli stessi avrebbero versato in tributi alle casse comuni due anni dopo. Occorre a questo riguardo ricordare che ben diverse sono le cifre fornite dalla Fondazione Moressa, che per il 2009 ha parlato di un reddito prodotto di 40 miliardi, e cioè del 5,1% del totale per il 7,9% della popolazione (in realtà – come visto – più del 14%), ricordando che tale reddito è addirittura diminuito dello 0,6% rispetto all’anno precedente e che è in continua discesa. Gli stranieri avrebbero versato, in questa versione, circa 3 miliardi di Euro in tasse.
La “stranezza” che balza subito in evidenza è costituita dal rapporto fra il reddito  che si sostiene sia stato prodotto e il relativo livello di tassazione: il 2,6% (versione Caritas) o anche il 7,5% (Fondazione Moressa) sono aliquote davvero ridicole se rapportate al livello medio di tassazione effettiva dei cittadini italiani che è fra i più alti del mondo occidentale: viene “maliziosamente” da pensare che gli stranieri non lavorino, lavorino in nero, evadano le tasse o che si avvalgano di fiscalisti di diabolica abilità. Sempre secondo la Fondazione Moressa, nel 2009 gli stranieri avrebbero infatti dichiarato un reddito medio di 12.500 Euro l’anno, e la metà di loro meno di 10.000 Euro. La seconda affermazione («gli stranieri danno alla comunità più di quanto ricevono») è ancora più stravagante e carica di benevolenza nei confronti dell’immigrazione. Il “trucco” è nelle voci che lo stesso XX Rapporto sull’immigrazione (redatto dalla Caritas-Migrantes) dettaglia nel 2010. Vediamole.
Nelle entrate vengono specificati i contributi previdenziali (7,5 miliardi), l’Irpef (2,2 miliardi), l’Iva (un miliardo) e le tasse per permessi di soggiorno e cittadinanza (100 milioni), per un totale di 10,8 miliardi. Innanzi tutto si deve osservare che non si possono mescolare i dati Inps con quelli dei contributi fiscali perché si tratta di cose totalmente diverse. Quindi i 7,5 miliardi di contributi pensionistici del 2009 non si possono sommare ai 3,3 miliardi delle altre tasse e sono già stati esaminati a parte quando si è affrontata la voce pensionistica. Giocando invece un po’ capziosamente sulla confusione delle due cose, il Dossier 2010 della Caritas dichiara che l’apporto degli immigrati presenta un saldo attivo di quasi 0,9 miliardi, che – come già osservato – sale misteriosamente nel Dossier dell’anno successivo a 1,5 miliardi. Prendiamo con generosità i dati delle entrate per buoni, anche se la Fondazione Moressa per il 2009 ha stimato il livello contributivo degli immigrati a 3 miliardi, e cioè al 10% in meno.
In ogni caso, se 2.665.791 stranieri fanno dichiarazioni dei redditi, ciascuno di loro avrebbe versato in Irpef circa 825 Euro l’anno, che significa – applicando l’aliquota più bassa del 23% – un reddito medio di 3.600 Euro, contro gli 11.706 Euro della media nazionale, immigrati compresi. Anche qui varrebbe la pena di approfondire numeri e stime.
La Caritas ci dice che nel 2010 gli immigrati regolari (4.235.000) hanno versato 2,2 miliardi in Irpef: tutti gli altri (clandestini o in attesa di regolarizzazione, circa 1.800.000 persone in tutto), non hanno versato nulla. Vale la pena di osservare che quasi lo stesso ammontare è stato versato nel 2009 dalla Provincia di Como (590.000 abitanti), e che la Provincia di Modena ha versato 2,4 miliardi e quella di Vicenza 2,6, e cioè molto di più di tutti gli immigrati messi assieme, che sono dieci volte più numerosi degli abitanti di ciascuna di esse. Insomma, l’intero ambaradan dell’immigrazione (6 milioni di persone, criminalità, problemi sociali, affollamento eccetera) “rende” in Irpef all’Italia come la sola Provincia di Como, e meno di quelle di Modena o Vicenza e di 14 altre, solo in Padania, che non danno problemi a nessuno. Se si considera il totale della contribuzione fiscale, gli stranieri “rendono” come tutti gli abitanti della Provincia di Parma (437 mila), metà di quella di Verona (914 mila complessivi), o del Comune di Bologna (377 mila). In tutto, ci sono 24 province padane che pagano ciascuna di più di tutti gli immigrati messi assieme. Se si considera l’Iva, la cosa è ancora più significativa perché 1 miliardo è meno dell’1% di tutta la riscossione di questa tassa, e cioè ogni immigrato produce gettito Iva che è meno di un decimo di quello di un cittadino italiano.
Le uscite mostrate  nel Dossier 2010 sono ancora più “interessanti”. Si dichiarano 2,8 miliardi per la spesa sanitaria. É credibile che, a fronte di una spesa complessiva che si aggira (per difetto) attorno ai 106 miliardi solo il 2,7% sia speso per l’11% e oltre della popolazione residente? Non sarebbe più corretto indicare una cifra approssimata (molto prudente) di 10-12 miliardi? Giova ricordare che fra gli immigrati regolari solo il 68% è iscritto al servizio sanitario nazionale:  per questo ci sono più ricoveri d’urgenza e ricorsi al pronto soccorso che sono i più costosi, che riguardano soprattutto i 3 milioni di non iscritti. Si dichiarano 2,8 miliardi per la spesa scolastica. Indicata come il 4,5% del Pil, la spesa per l’istruzione dovrebbe aggirarsi attorno ai 71 miliardi. I ragazzi foresti iscritti nelle scuole nel 2010-11 sono 709.826 e cioè il 7,9% della popolazione scolastica: sarebbe perciò più corretto indicare una quota di spesa di 5-6 miliardi. Si dichiarano  400 milioni per le spese sociali dei Comuni, e qui è davvero difficile fare dei conteggi anche approssimativi. Suona in ogni caso molto poco credibile che i Comuni spendano solo 60-65 Euro per ogni immigrato in un anno. Le voci di contribuzione sono tantissime e uno sguardo veloce ai bilanci comunali permette di stimare spese almeno cinque volte superiori in integrazione al reddito, sussidi per gli affitti, aiuti scolastici, interventi asistematici eccetera. Una stima molto prudente può far gravitare tale spesa fra 0,5 e 1 miliardo.
Si dichiarano 400 milioni per la casa, e vale la stessa considerazione per il caso precedente. Non esiste alcun dato  completo e attendibile circa la presenza di stranieri negli alloggi di edilizia pubblica: si sa solo che in molti comuni essi superano il 10% e che il loro numero sia in rapido aumento. In alcuni casi essi sono più del 60% delle nuove domande di assegnazione: il comparto si sta piano piano trasformando in loro appannaggio quasi esclusivo. La creazione del patrimonio edilizio pubblico è stata fatta con grandi sacrifici economici da parte dei lavoratori e di tutti i contribuenti: esso oggi dovrebbe essere un bene a disposizione dei ceti più deboli della nostra società, un ammortizzatore delle storture sociali. É impossibile quantificare un costo complessivo del patrimonio e quindi il beneficio economico di chi lo utilizza, ma sicuramente si tratta per gli stranieri di una cifra molte, molte volte superiore a quella indicata con tanta affettuosità dalla Caritas: non è certo sbagliato ipotizzare una spesa fra i 5 e i 10 miliardi, considerando i costi di costruzione dell’edilizia pubblica, gli ammortamenti e le spese di manutenzione.
Si dichiarano 2 miliardi per spese di tribunali e carceri. In realtà tale cifra non basta neppure a coprire le spese di mantenimento e sorveglianza per i 24.973 stranieri detenuti nelle carceri italiane nel 2011, che sono il 37,1% del totale della popolazione carceraria, e che a un costo giornaliero dichiarato per il 2011 dal Ministero della Giustizia di 112,81 Euro pro capite, porta già a più di 2.817 milioni. Questo significa che il loro costo vero è più di un terzo di tutte le spese del Ministero della Giustizia e di parecchie altre voci connesse, cui vanno sommate le spese  per i carabinieri e tutti gli altri organi di polizia implicati nella gestione. Sempre per difetto si possono ipotizzare 3-4 miliardi. Le attività di pubblica sicurezza sono in bella parte occupate a occuparsi di stranieri ed è praticamente impossibile quantificarne i costi.
Si dichiarano 500 milioni per i centri di espulsione e accoglienza. Solo nei centri di identificazione nel 2010 sono passate 7.039 persone con una permanenza media di 51 giorni. Oggi sono molti di più e possono essere trattenuti fino a 18 mesi.  Il costo giornaliero per persona (dato Camera dei Deputati) è di 45 Euro. Così da dati ufficiali, solo nel 2010 si sono spesi 16.154.505 Euro di solo mantenimento.  Non sono noti i costi del personale e delle strutture. Nel 2010 a fronte di 50.717 persone rintracciate in posizione irregolare, ci sono stati 4.201 respingimenti alla frontiera e 16.086 rimpatri. Da fonti  parlamentari, i soli rimpatri sono costati 10 mila Euro ciascuno, e cioè un totale di 160 milioni. Quello dell’accoglienza ed espulsione è il dato che forse si avvicina di più a quello ipotizzato dalla Caritas: in ogni caso non si sbaglia calcolare fra lo 0,5 e1 miliardo.
Si dichiara 1 miliardo per le spese previdenziali, che dovrebbe fare parte di un altro conteggio, e che è comunque – come si è già visto – un dato evidentemente infedele. Solo così – sommando le voci esaminate – i 9,95 miliardi del Dossier 2010 diventano fra i 24 e i 34 miliardi l’anno, sempre per difetto. Sottraendo quanto gli immigrati versano al fisco, si ha un saldo negativo di 21-31 miliardi. Ci sono poi i rifugiati politici che – si è visto – costano circa 2 miliardi.
A tutti questi costi vanno aggiunte altre voci, alcune delle quali incontrollabili e difficilmente calcolabili:  Fondo nazionale per l’inclusione sociale, contribuzioni a Caritas, Opera Nomadi e a una miriade di associazioni di assistenza, le spese per le operazioni di vigilanza e di polizia, gli sgomberi degli abusivi, il lavoro della Guardia costiera, l’impegno del volontariato, gli oboli e le donazioni volontarie dei cittadini. Nel 2010 la sola Caritas Diocesana di Bologna ha dichiarato di avere speso 413.900 Euro in contributi per affitti, di cui il 56,6% a stranieri. Giova anche ricordare come esempio significativo che nel Bilancio dello Stato del 2008, alla “missione” descritta con la voce “Immigrazione, accoglienza e garanzia dei diritti”, erano assegnati 1.427.000 Euro. É uno dei tantissimi esempi di frammentazione maliziosa delle voci di spesa e della “riservatezza e prudenza” con cui la Caritas e altri esplicitano i costi. Mettendo assieme tutte queste voci, non è sbagliato pensare a una spesa complessiva di altri 2-4 miliardi.
C’è poi l’enorme costo della malavita straniera, il ricavato di furti e di rapine, dei traffici di droga e della prostituzione. Secondo la Confesercenti, la malavita organizzata ha avuto nel 2009 introiti per 135 miliardi di Euro: quanti di questi finiscono in tasche straniere? E quanti finiscono all’estero? La prostituzione  ha incassato, secondo il Ministero dell’Interno, 180 miliardi, un terzo dei quali grazie all’attività di prostitute straniere: quanti di questi 60 miliardi sono finiti a stranieri o all’estero?  Oltre a questo, ci sono gli effetti nefasti sul valore degli immobili nei quartieri occupati dagli stranieri: in un numero crescente di situazioni il valore di vendita e di affitto degli edifici precipita fino a fare degli stranieri i soli possibili acquirenti a costi che sono evidentemente molto inferiori a quelli “regolari” di mercato. Sono queste ultime spese che non possono neppure essere stimate ma che dilatano molto il costo dell’immigrazione che pagano i cittadini. Non basta. C’è un’altra voce che viene normalmente ignorata: quella delle rimesse.
Secondo l’Eurispes gli immigrati regolari in Italia avrebbero trasferito tramite canali consentiti circa 6 miliardi di Euro di rimesse verso i loro paesi di origine nel 2007, con un aumento del 30% rispetto ai 4,5 miliardi dell’anno precedente.  La Banca Mondiale stima l’ammontare del reale trasferimento ad almeno il doppio. Il Dossier 2011 dice – citando fonti della Banca d’Italia – che nel 2010 le rimesse sono state “solo” di 6.385 milioni, in diminuzione rispetto all’anno precedente: 1.508 Euro a testa per straniero regolare. A titolo di confronto, va ricordato che nel 2007 i turisti stranieri hanno portato in Italia valuta per 31 miliardi e 79 milioni di Euro (dati Turismo & Finanza),  29 miliardi nel  2010 (dati Banca d’Italia): considerando l’aumento continuo degli immigrati  e dell’uscita legale e illegale di denaro, e la crisi del mercato turistico, non è sbagliato affermare che oggi le rimesse dei lavoratori stranieri annullano gli effetti benefici di almeno metà del turismo straniero in Italia.
Tabella 4
Voce di spesaSpesa stimata in miliardi di Euro
Spesa sanitaria10 – 12
Spesa scolastica5 – 6
Spese dei Comuni0.5 – 1
Spese per la casa5 – 10
Spese per carceri e tribunali3 – 4
Accoglienza-espulsioni0,5 – 1
Rifugiati politici2
Spese varie2 – 4
Rimesse all’estero6 – 12
Totale spese34 – 52
Tabella 5
Voce di entrataEntrata stimata in miliardi di Euro
Irpef lavoratori dipendenti1,8
Irpef lavoratori autonomi0,3
Irpef lavoratori parasubordinati0,1
Iva1,0
Tasse permessi di soggiorno e cittadinanza0,1
Totale entrate3,3
Si ha nel complesso una spesa netta per la comunità stimabile fra i 30 e i 50 miliardi l’anno, anche escludendo le voci che è proprio impossibile quantificare ma che pure hanno un peso straordinario sulle tasche e sulla qualità di vita dei cittadini italiani. In ogni caso, anche solo considerando le voci descritte, ognuno dei 56 milioni di cittadini italiani (naturalizzati compresi)  ha pagato nel 2010 fra 540 e 900 Euro il “piacere” di avere degli stranieri in casa. Va anche peggio ai residenti in Padania che pagano lo stesso piacere fra i 1.000 e i 1.500 Euro pro capite: da 4.000 a 6.000 Euro l’anno per una famiglia di quattro persone, che raddoppiano nelle aree in cui la pressione fiscale è più alta, come in gran parte della Lombardia. Si può dire che ogni famiglia lombarda rinunci  in un anno all’acquisto di una automobile di media cilindrata per il piacere della solidarietà e dell’ospitalità nei confronti di stranieri. Oppure, ribaltando il conteggio, viene fuori che ogni immigrato (regolare o irregolare) costa alla comunità italiana dai 5.000 agli 8.300 Euro l’anno. Se poi si vogliono considerare anche le cifre che riguardano la malavita e la prostituzione, è del tutto giustificato ipotizzare che tutti questi numeri possano tranquillamente essere raddoppiati, che cioè l’immigrazione pesi sul bilancio delle popolazioni italiane per 60-100 miliardi di Euro l’anno, e cioè fra il 4% e il 7% del Pil. 
Effetti sul mercato del lavoroUn altro punto essenziale è cercare di capire quali siano gli effetti dell’immigrazione sul mondo del lavoro e, in particolare, quanto la presenza di manodopera straniera a basso costo danneggi le fasce più deboli della nostra società, per la concorrenza al ribasso e comportamenti antisindacali, per la presenza di gente che si offre per qualsiasi lavoro a qualsiasi prezzo, a qualsiasi condizione. Come si possono quantificare i posti persi, i guadagni mancati di tanti lavoratori che si vedono sostituiti da gente che lavora tante ore in condizioni subumane? Quanto è il danno che crea il degrado nei rapporti di lavoro senza che i sindacati muovano un dito?
Finché le condizioni generali sono positive, l’economia tira e la ricchezza prodotta è in crescita, i danni dell’immigrazione possono essere assorbiti e in qualche modo tollerati dalla comunità. Il problema naturalmente si acuisce  quando – come sta succedendo – l’economia è in crisi e il sistema occupazionale è al collasso, con licenziamenti, disoccupazione e grave disagio sociale. Si è già visto come la disoccupazione sia in rapida crescita e come colpisca sia i lavoratori italiani che gli stranieri: il 10,9% dei lavoratori italiani e il 23,8% di quelli stranieri ricevono nel 2010 un sussidio di disoccupazione, per un totale di circa 15 miliardi l’anno. Sembrerebbe giusto, in condizioni del genere, salvaguardare principalmente i cittadini italiani utilizzando la mano d’opera straniera nella sua reale funzione di serbatoio ausiliario di lavoro in positivo ma anche in negativo: integrare la mano d’opera italiana se questa davvero manca, e lasciare il posto agli italiani che lo cercano. La nostra comunità è tenuta a rispettare il patto sociale che lega al suo interno i suoi membri in forma privilegiata rispetto ai foresti. È perciò ragionevole pensare che in situazione di emergenza e di ristrettezze debbano essere gli stranieri i primi a subirne le conseguenza, essendo prioritario l’obiettivo di garantire un lavoro ai cittadini italiani. Secondo informazioni fornite dalla Caritas Ambrosiana, le persone che si sono rivolte nel 2010  ai Centri di Ascolto per richiedere aiuto sono aumentate del 10,7% rispetto al 2007, e ben del 59% rispetto al 2002. Essi sono ancora in larga parte stranieri ma gli italiani disagiati sono in rapido aumento e raggiungono il 26,4% del totale.
Il fenomeno induce a una doppia serie di riflessioni. La prima riguarda la costanza e l’entità del ricorso a strutture di sostegno da parte degli immigrati: se essi non sono in grado di sopravvivere adeguatamente alle condizioni in cui si trovano significa che non sono venuti per ricoprire un ruolo “normale” all’interno dei meccanismi sociali italiani, non sono qui cioè per fare lavori per cui non si è trovata offerta nazionale, e quindi non sono “utili” e meno che meno necessari alla nostra comunità. Sono cioè qui solo per trovare una forma di sussistenza e non certo per entrare a pieno titolo nei meccanismi sociali e produttivi. Questo spiega anche il numero di minori non accompagnati e di persone disabili al lavoro che sono entrati nella Repubblica italiana e per i quali in nessun modo può essere invocato lo status di lavoratore che integra la mano d’opera nazionale. La prima considerazione ci riporta direttamente alla falsità dei teoremi “stranieri = lavoratori”,   “stranieri = risorsa per la comunità”.
La seconda considerazione riguarda il peggioramento delle condizioni generali e il danno che gli stranieri producono non solo all’economia in generale, ma proprio alle classi più deboli della nostra società, sottraendo loro il lavoro e costringendole a una immorale e dolorosa gara di dumping del valore della mano d’opera, a una degradante corsa a chi si offre per meno.  Risulta cioè piuttosto chiaro – e la crisi economica rivela il problema in tutta la sua gravità – che gli stranieri sottraggono risorse alla comunità e soprattutto che le tolgono alle sue classi più disagiate. Per affrontare l’emergenza economica, oggi si devono dare i posti di lavoro agli italiani a scapito degli stranieri: non ha alcun senso – morale prima ancora che economico – avere milioni di disoccupati italiani a fronte di milioni di stranieri occupati e disoccupati. L’immigrazione è un pessimo affare in termini economici ed è disastrosa in termini sociali. Essa porta effimeri vantaggi a datori di lavoro troppo disinvolti e attenti solo al loro immediato tornaconto di cui scaricano i costi sociali sulla comunità. Sono gli stessi che non esitano a delocalizzare la produzione quando anche la delocalizzazione della mano d’opera non è sufficiente a mantenerli sul mercato. Le difficoltà a restare competitivi sono in gran parte generate dai costi eccessivi  dell’apparato pubblico e della conseguente esosa fiscalità, utilizzata in larga parte per il mantenimento di strutture parassitarie e non in investimenti in infrastrutture. Così, se gli imprenditori sono costretti a ricorrere a mano d’opera sottopagata è anche responsabilità dell’inefficienza e della rapacità dello Stato e della comunità che lo legittima e supporta. Così i cittadini sono costretti a pagare due volte: lo Stato parassitario e l’immigrazione che esso procura e permette proprio con le sue inadempienze.
Oltre a ciò, l’immigrazione è sostenuta anche da chi è interessato, in nome dell’ideologia o della conservazione di privilegi settoriali a disgregare le nostre comunità indebolendone la capacità di reazione e di coesione politica. In particolare l’immigrazione è favorita da chi – a sinistra – non trova più sufficienti ragioni di scontro sociale nella lotta di classe e di chi – a destra – spera di ricompattare un senso di nazionalità messo in pericolo dalle istanze localiste creando un nuovo nemico comune: uno più diverso delle diversità interne. Essa è incoscientemente sostenuta da chi confonde – anche in buona fede – l’accoglienza indiscriminata con la solidarietà, la resa con il buonismo, di chi non si rende conto che favorendo il prossimo meno prossimo danneggia quello più prossimo, toglie di fatto ai più poveri e deboli dei nostri ogni occasione di emancipazione.  Spesso sono proprio le anime pie dell’accoglienza i peggiori nemici degli ultimi dei nostri.
Tabella 6 - Alcuni numeri significativi
Immigrati regolari
4.570.000
Immigrati in attesa di regolarizzazione
400.000
Immigrati clandestini
700.000 – 1.200.000
Immigrati naturalizzati italiani
500.000
Immigrati iscritti all’Inps
2.000.000
Immigrati disoccupati
560.000
Immigrati imprenditori
628.000
Immigrati di seconda generazione
650.000
Studenti stranieri
710.000
Zingari
160.000
Immigrati in prigione
30.000
Prostitute straniere
25.000
Stranieri rimpatriati
16.000
Musulmani
1.500.000 – 2.000.000
Immigrati pensionati
294.000
Immigrati lavoratori dipendenti
520.000
ConclusioniOggi l’Italia è appesantita da alcuni grandi ordini di problemi, da enormi palle al piede che ne impediscono lo sviluppo e una esistenza civile, e che – nell’attuale disastrosa congiuntura economica – rischiano di causarne la bancarotta e la catastrofe sociale. Sono voragini di spesa, enormi falle che stanno facendo affondare la nave su cui tutti i cittadini italiani sono imbarcati. C’è una struttura statuale centralista, burocratizzata, inefficiente, elefantiaca e corrotta; le spese correnti dello Stato nel 2010 sono state superiori ai 460 miliardi, di cui 91 per stipendi al personale, non sempre necessario, spesso inutile, a volte addirittura dannoso per la vita comunitaria. Il pubblico impiego è stato utilizzato storicamente in Italia come ammortizzatore sociale e serbatoio di consenso elettorale: ci sono più pubblici dipendenti della maggior parte dei paesi occidentali, anche di quelli che hanno una popolazione assai più numerosa e che assicurano servizi sociali di livello molto più elevato. Pur restando in termini percentuali sotto agli altri paesi europei, l’Italia– ad esempio – nel 2010 spende 23,5 miliardi di Euro solo in spese militari. Secondo Cisl e Uil l’evasione fiscale ha raggiunto nel 2010 i 150 miliardi anche senza l’elusione;  ci sono regioni settentrionali dove l’evasione ha tassi fisiologici simili o addirittura inferiori a quelli degli altri paesi avanzati d’Europa, ma ci sono parti della penisola dove essa raggiunge livelli del tutto inaccettabili. L’evasione è combattuta solo a parole o con iniziative vessatorie che colpiscono solo le regioni più virtuose e le classi produttive già tartassate.
Una debordante malavita organizzata si sta espandendo in ogni angolo della penisola e ha costi sociali ed economici enormi: nel 2009 il suo “fatturato” è arrivato, secondo il rapporto “Sos Impresa” della Confesercenti a 135 miliardi, con un utile di 70 miliardi di Euro. A essa si affiancano attività ai limiti della legalità – come gioco e scommesse – che sfuggono quasi totalmente alla contribuzione fiscale. L’arretratezza cronica del Mezzogiorno assistito e mal governato costa alle regioni padane prezzi elevatissimi che impediscono loro di competere sul mercato globale ai livelli di eccellenza che hanno sempre conosciuto: nel 2007 esse hanno trasferito verso Sud 56 miliardi di Euro. In realtà il trasferimento è molto superiore ma difficilmente quantificabile proprio per l’estrema frammentazione delle voci e per l’impegno dello Stato a minimizzare la percezione e la conoscenza del fenomeno, per ragioni analoghe a quelle per cui si cercano di occultare i dati relativi all’immigrazione.
Secondo la Confcommercio, nel 2010 la “casta” è costata 9 miliardi; secondo la Uil ci sono circa 1,3 milioni di persone che vivono direttamente o indirettamente di politica con un costo di 24,7 miliardi nel 2010. É una delle voci di spesa più odiose e immorali perché riguarda i privilegi di chi dovrebbe vegliare sulla correttezza dell’utilizzo delle risorse comuni. Ci sono i danni della corruzione, del clientelismo (pensioni fasulle, tangenti, appalti truccati) e quelli delle opere pubbliche inutili: altri miliardi. L’Indice di propensione alla corruzione del 2011 mette  l’Italia in coda a tutti i paesi occidentali. É molto difficile quantificare queste spese, che servono per costruire e mantenere il consenso politico ed elettorale di chi detiene il potere. Il Saet (Servizio anticorruzione e trasparenza) della Presidenza del Consiglio ha calcolato nel 2009 un costo fra 50 e 60 miliardi di Euro.
A tutte queste sciagure se ne aggiunge oggi un’altra che rischia di dare un colpo mortale a un paese già in grave affanno: alcune decine di miliardi di costi rappresentati dall’immigrazione. C’era proprio bisogno di inventarsi un altro problema? Non bastavano i guai più antichi e “cronicizzati”? É urgente e vitale risolverlo, anche con decisioni drastiche e coraggiose. Occorre prendere atto che permettere l’ingresso a tanti milioni di foresti è stato un grande errore, che ora rischia di trasformarsi in incubo. Occorre cominciare a predisporre un serio piano di rientro di tutti gli immigrati che non abbiano una loro stabile collocazione all’interno delle strutture produttive reali. Il rimpatrio di milioni di persone deve essere scaglionato e strutturato su esigenze funzionali ma anche umanitarie. Ai prezzi attuali l’estromissione in blocco di tutti gli stranieri costerebbe sui 60 miliardi e potrebbe essere ammortizzata in meno di un paio di anni di costi dell’immigrazione, ma non può essere questa la strada da percorrere.
Il progetto di “uscita” va ripartito in fasi diverse: i primi a rientrare devono essere i clandestini, poi i regolari che commettono reati, poi i regolari disoccupati, poi quelli che perdono il lavoro, poi quelli che vengono sostituiti gradualmente dai disoccupati italiani. Ciascun gruppo va accompagnato, quando non addirittura preceduto, dai famigliari ricongiunti. Tutte le proprietà e i diritti acquisiti vanno rispettati e per i regolari che hanno sempre tenuto un comportamento ineccepibile si possono anche studiare forme di incentivazione al rimpatrio o particolari generi di collaborazione economica nei loro paesi con le imprese italiane che intendono stabilire rapporti economici con l’estero. Potrebbero infatti trasformarsi in “terminali” delle attività economiche e commerciali italiane nei loro paesi di origine. Si deve poi mandare a regime un diverso sistema di utilizzo di mano d’opera straniera, ove questa fosse ancora necessaria, basato su contratti a tempo, forniture di prestazioni sociali sicure (alloggio, sanità eccetera) e sull’impossibilità di soggiorni definitivi. In questi tipi di rapporti lavorativi  andranno privilegiati i lavoratori che hanno già soggiornato in Italia, che ne parlano la lingua e che non hanno mai avuto problemi con la legge. É, in quest’ottica, essenziale che gli stranieri che entrano: 1) abbiano un contratto di lavoro a termine, 2) abbiano un alloggio procurato dal datore di lavoro, 3) siano coperti da una assicurazione o da un garante responsabile, 4) soddisfino tutta una serie di requisiti minimi (conoscenza della lingua, controllo sanitario, fedina penale in ordine), 5) dispongano di documenti di riconoscimento e di ritorno. Solo così si riuscirebbe a costruire una rete di rapporti economici vantaggiosi per tutti, senza creare problemi sociali in Italia o nei paesi di origine dei lavoratori. L’intera operazione deve poter funzionare su basi volontarie e di mutuo rispetto: ove non fosse possibile, si deve creare per i clandestini e i riluttanti un meccanismo di pressione e dissuasione alla clandestinità  basata sul lavoro coatto a vantaggio della comunità. Chi non vorrà rimpatriare sarà ospitato in strutture di lavoro per periodi di tempo adeguati a ripagare la comunità delle spese di mantenimento e di rimpatrio:  al termine dell’impegno saranno loro consegnati un documento di viaggio e una somma di reinserimento in patria tratta da quanto da loro prodotto.
Un altro tipo di azione per contenere e diminuire la presenza negativa degli stranieri sul mercato e nella nostra vita comunitaria potrebbe essere rappresentata da disincentivi fiscali nei confronti di cittadini italiani e degli stessi stranieri. Si potrebbe ad esempio introdurre una tassa a carico dei datori di lavoro che impiegano mano d’opera straniera almeno fin tanto che ci sono italiani disoccupati o in cerca di lavoro; si potrebbe anche introdurre una tassa aggiuntiva anche sugli affitti di alloggi locati a cittadini stranieri. Gli stessi stranieri dovrebbero poi essere sistematicamente sottoposti a controlli fiscali allo scopo di accertare con severità ogni tipo di evasione e di verificare le fonti di sussistenza di tutti gli immigrati. In un sistema del genere non ci sarebbe più spazio per la necessità di assistenza a stranieri disagiati proprio per l’impossibilità della formazione di situazioni di disagio. Di sicuro, le nostre comunità non sono più in grado di sostenere l’attuale sistema di immigrazione, che è un incubo sociale e che costa ogni anno come parecchie finanziarie. L’attuale difficile congiuntura economica non fa che rendere più evidente un errore che si protrae da troppi anni e che si  abbatte su un paese già oberato da altre grandi difficoltà. Così come è stata impostata, l’immigrazione non è una ricchezza ma un terribile costo sociale ed economico: é certo che, senza gli immigrati, l’economia del paese non si fermerebbe affatto. Anzi. In queste condizione, quella dell’immigrazione rischia di trasformarsi nella più grande sciagura toccata alla penisola in millenni di storia.
Una ultimissima considerazione, ma non per questo meno determinante, va fatta a proposito di chi ha inventato, favorito e coperto il fenomeno, e di chi ancora oggi tenta di farlo passare come un evento dalle valenze positive.  Le cause vanno ricercate lontano, nelle radici stesse dell’economia moderna apolide e globalizzata, nell’indifferenza che la grande finanza mostra nei confronti della gente, delle sue esigenze, della cultura e del principio stesso di umanità. Gli uomini sono considerati pedine, forza lavoro o numeri che possono essere spostati a piacimento. In questo contesto amorale si sono collocati con facilità anche interessi più specifici di ordine politico o di egoismo economico: ideologie rivoluzionarie che si aggrappano a qualsiasi contrasto sociale per raggiungere i loro obiettivi (e che in mancanza di contrapposizioni ne creano di nuove); Stati che utilizzano l’immigrazione per giochi di potenza, di destabilizzazione  o di ricatti internazionali; trusoni che realizzano facili guadagni giocando sui bisogni dei più deboli e scaricando i costi sulla società; avventurieri della più bassa politica che speculano su reazioni e sentimenti per trasformarli in consenso elettorale; associazioni criminali che sfruttano la miseria degli uni e le debolezze morali degli altri. Sembra quasi che l’immigrazione sia una sorta di catalizzatore delle peggiori pulsioni della nostra società. Una attenzione speciale meritano infine quelli che a tutti i costi vogliono trasformarla in un fatto positivo, quelli che cercano di nasconderne tutti gli aspetti più deleteri, che la descrivono come una sorta di meraviglia o benedizione della natura, quelli che truccano i dati, i numeri e le informazioni per evitare reazioni. Sono i maestri delle cure palliative, quelli che vogliono convincere gli ammalati gravi di essere sani e far credere loro che i sintomi che percepiscono siano gioiose manifestazioni di vitalità. É un compito ingrato ed eroico per chi lo fa a fin di bene, ma un’infamia se le motivazioni sono altre.
Nel bel mezzo della drammatica crisi economica e politica, fra una pensosa consultazione e l’altra per tentare di formare un governo di emergenza, il presidente Napolitano ha trovato nell’autunno 2011 il tempo per ricevere una delegazione di giovani stranieri aspiranti alla posizione di “nuovi italiani” e ha sentenziato che gli immigrati: 1) «rappresentano una grande fonte di speranza», 2) «sono la linfa vitale per il Paese», 3) «servono anche loro a sostenere il fardello del debito pubblico». Forse voleva dire “creare”, più che “sostenere”. Ma non c’è da stupirsi: il Quirinale costa ai contribuenti italiani circa 235 milioni di Euro l’anno. É il decimo di quanto versano in Irpef tutti gli immigrati messi assieme. Ma è anche quello che pagano in tasse città come Pinerolo, Treviglio o Spoleto: è come se  ciascuna di queste comunità lavorasse solo per mantenere la Corte. Uno straordinario modello per i “nuovi italiani” offerto da certi “vecchi italiani”, così affezionati alla Patria e allo Stato, in cui vedono – secondo Frédéric Bastiat «la finzione secondo la quale tutti credono di poter vivere alle spalle di tutti gli altri». L’Italia lo è in modo speciale e gli immigrati lo hanno capito perfettamente.
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Fonte:  Web

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