mercoledì 7 agosto 2013

india

L’India rigetta le proposte italiane per le deposizioni dei testimoni: per i Marò è notte fonda 3 07 agosto, 2013 | Permalink | Archiviato in: Attualità Marò in India-2La notizia era nell’aria da qualche tempo, ma adesso è divenuta ufficiale e ripresa dalla stampa indiana: l’MHA (Ministry of Home Affairs, l’equivalente del Ministero degli Interni italiano) ha rigettato le tre opzioni che l’Italia aveva offerto per tentare di risolvere in modo ragionevole e soddisfacente per tutti il problema sollevato dagli inquirenti indiani circa l’ottenimento delle testimonianze degli altri quattro Marò non indagati, che si trovavano a bordo della Enrica Lexie con Latorre e Girone. E’ nota la pretesa degli indiani di interrogare nuovamente i 4 fucilieri, nonostante questi abbiano già reso le loro deposizioni all’epoca dei fatti e che siano stati interrogati numerose altre volte nel corso del sequestro della Lexie nel porto di Kochi, durato quasi due mesi. Segno evidente che ci troviamo di fronte all’ennesimo tentativo di prendere tempo e di procrastinare all’infinito la durata della fase istruttoria di una vicenda divenuta ormai insostenibile per gli indiani, che si sono infilati in un vicolo cieco. Tra l’altro appaiono nebulosi e misteriosi i motivi per i quali si è ritenuto di interporre il Ministero degli Interni indiano tra quelli degli Esteri dei due Paesi coinvolti nel caso dei fucilieri del San Marco, a meno di non volere ricondurre il tutto nell’ambito di una strategia dilatoria posta in atto per rendere un inestricabile ginepraio l’intera vicenda. Comunque, nella circostanza l’Italia ha dimostrato spirito collaborativo per venire incontro alle esigenze degli indiani, proponendo tre valide alternative: l’invito rivolto ad una delegazione di magistrati e di inquirenti indiani a venire a raccogliere le testimonianze ritenute indispensabili qui in Italia, a Roma; oppure di ricorrere ad un sistema di video-conferenza tra le parti; od ancora, ottenere le dichiarazioni richieste per iscritto con una rogatoria internazionale secondo prassi giuridiche consolidate. Ma, come detto, nessuna di queste tre soluzioni è stata ritenuta soddisfacente da parte degli indiani, che ancora una volta hanno tenuto a sottolineare che “fintanto che non otterrà queste dichiarazioni testimoniali la NIA, National Investigation Agency, non potrà concludere la fase inquirente, rimandandosi così sine die la possibilità di istruire un processo equo e rapido ai due Marò”. In pratica un vero ricatto. La visita in Italia è stata esclusa perché secondo loro non permetterebbe l’applicazione del CrPC (Criminal Procedure Code) peculiare dell’India (una procedura che non esclude la tortura per far dire ai testi quello che si vuol sentire, ndr). La video conferenza non va bene perché filtra l’aspetto emozionale del rapporto diretto e non crea i presupposti per stabilire un feeling tra inquirenti e testi (cioè non si possono influenzare, né intimidire i testi, ndr), mentre la rogatoria è stata esclusa perché darebbe luogo a richieste reiterate di approfondimenti e chiarimenti delle fredde affermazioni ricevute per iscritto, che solo con un processo interattivo diretto di domande-risposte si può sperare di potere ottenere. La più immediata conseguenza di questa ennesima impasse, al di là dei messaggi improntati ad irresponsabile ed infondato ottimismo della Bonino e del suo vice Staffan De Mistura, è che si complica maledettamete in India la posizione dei due Marò italiani trattenuti sotto l’accusa di omicidio di due pescatori indiani. Le indagini che la Corte Suprema indiana aveva affidato alla NIA lo scorso mese di aprile insieme ad un termine perentorio di 60 giorni per condurle a termine sono infatti giunte ad un punto morto. Dapprima c’era stato il pretesto della necessità di riprodurre tutta la documentazione, atti, rilievi della polizia, verbali di deposizioni e di testimonianze, con ciascun atto scritto come capitava in una delle quattro lingue possibili, ovvero malayalam, hindi, italiano ed inglese, in una unica lingua comprensibile a tutti, cioè l’inglese. Questo ha comportato la richiesta della NIA, accettata dalla Corte di New Delhi, di poter sforare il termine dei 60 giorni per la conclusione della fase istruttoria e per la produzione del relativo FIR, First Investigations Report, in assenza del quale non può essere avviata la fase di istruzione del processo con la formulazione esatta dei capi d’accusa, o la dichiarazione del non luogo a procedere, a seconda delle conclusioni raggiunte sulla base degli elementi probatori emersi e presi in considerazione. Queste ulteriori lungaggini accettate supinamente dagli addetti ai lavori appaiono particolarmente gravi alla luce dei nuovi elementi acquisiti di recente e che rafforzano ulteriormente il convincimento dell’estraneità dei Marò ai fatti loro contestati. Un primo elemento, cui Qelsi ha già dato ampio risalto, riguarda l’ora in cui i Marò hanno sparato colpi di avvertimento in acqua per dissuadere un barchino di pirati, le 16.15 circa, che differisce di oltre 5 ore dall’ora che il comandante del peschereccio aveva indicato come quella dell’aggressione da parti di ignoti, cioè le 21.30 circa, nella quale aveva avuto luogo la sparatoria che ha causato la morte dei due pescatori. Un secondo elemento si è evidenziato nell’attenta rilettura delle dichiarazioni del procuratore generale della Corte Suprema di New Delhi Goolam E. Vanhavati. Questi ammette esplicitamente due cose: la prima era già nota ed è l’ammissione che l’incidente è avvenuto in acque territoriali internazionali, come l’Italia ha sempre sostenuto, ma ciò nonostante la Corte Suprema ancora non si è pronunciata in merito al quesito di competenza giurisdizionale sollevato da parte italiana che, giustamente, rivendica il diritto di rinviare a giudizio i due Marò, se ne ricorrono gli estremi. La seconda è una questione sfuggita ai più, inclusi tra questi non soltanto i distratti ministri del governo italiano di prima e di adesso, ma pare persino gli avvocati del collegio di difesa dei Marò. Allo stato delle cose, i due Marò sono ufficialmente accusati di “aver sparato contro un peschereccio indiano, causando la morte di due membri di equipaggio scambiati per pirati”. Ora noi ovviamente non siamo per niente esperti di diritto penale indiano, ma questa formulazione del capo d’accusa lascia chiaramente intendere l’attribuzione ai due Marò, posto, ma non concesso che siano stati loro a sparare al St Antony, della volontà non di offendere, ma di difendersi legittimamente da individui ritenuti per il loro atteggiamento sospetto come pericolosi e determinati pirati, non certo degli innocui pescatori. In altri termini, questa accusa dovrebbe tradursi nel riconoscimento della legittima difesa personale, che resta tale anche quando solo fondatamente presunta e non inficiabile neanche nelle circostanze in cui a posteriori si venga a rilevare l’oggettiva inesistenza di una minaccia immediata, grave e reale all’incolumità propria e di altre persone poste sotto la propria tutela. Ovvio che in questo caso ci si aspetti che l’accusa di omicidio venga fatta decadere e che ai Marò venga immediatamente restituita la libertà personale, inclusa quella di rientrare in Italia. L’altra alternativa plausibile è che, proprio a causa dell’aver scambiato i pescatori per pirati, come dato per acquisito dagli stessi inquirenti indiani, l’accusa di omicidio venga derubricata in quella di omicidio colposo, mentre non regge più quella di omicidio volontario che è contraddittoria ed incongruente con l’accertata ignoranza dei Marò che si trattasse di pescatori, perché tutto in quelle circostanze ha concorso a fare ritenere che si trattasse di pirati. Quindi, le accuse dovrebbero essere ridimensionate, oscillando tra l’eccesso di legittima difesa e l’omicidio colposo, reati per i quali il periodo di detenzione preventiva, arrivato a 18 mesi, sta ormai abbondantemente superando l’eventuale pena che si può ragionevolmente presumere che possa essere comminata nel caso, che appare assai remoto allo stato dei fatti, di riconosciuta colpevolezza dei Marò. Tra l’altro le famiglie delle vittime sono già state risarcite con 150mila euro ciascuna, per cui hanno rinunciato alla costituzione di parte civile, mentre quella richiesta dallo stato del Kerala è stata ritenuta inammissibile. Per queste ragioni, l’allungamento dei tempi di indagine diviene ogni giorno di più intollerabile ed insopportabile, ancorché assolutamente non giustificato. Eppure sembra che da questo punto di vista la situazione stia letteralmente precipitando. Per risolvere il problema della traduzione in inglese dei documenti, alla NIA era stata concesso lo spostamento dei termini per la produzione del FIR al 1 agosto, ma questa data ci è inesorabilmente scivolata alle spalle senza che nulla di nuovo si sia verificato. Quello che più preoccupa però è l’aspetto legato alle testimonianze pretese dagli altri 4 Marò, il che, come segnalato nel post già ricordato, dimostra la mancanza di pudore delle autorità indiane che hanno accusato l’Italia di non voler collaborare alle indagini ed alla rapida conclusione dell’istruttoria e del processo, scaricando sulle nostre spalle colpe che obbiettivamente sono solo loro. A tale proposito, si deve ricordare che anche gli stessi Latorre e Girone erano stati convocati come testi, e pur potendosi allontanare sulla Lexie già in rotta verso il Corno d’Africa, preferirono essere collaborativi prestandosi a rientrare a Kochi per aiutare la polizia indiana in una azione che era stata definita di contrasto alla pirateria. Sappiamo tutti poi come sia andata a finire in quella sciagurata occasione, con i due disponibili Marò italiani passati proditoriamente dal banco dei testimoni a quello degli imputati, e di qui direttamente in cella. Dati i precedenti, è chiaro che l’italia si sia rifiutata di “consegnare” anche gli altri 4 Marò, seppure richiesti solo come testimoni, che rischiano a loro volta di essere accusati e trattenuti in arresto dagli indiani una volta arrivati laggiù. Ora gli indiani si attaccano a questo pretesto per rinviare sine die la conclusione della indagine e dell’istruttoria, figuriamoci poi che fine potranno fare i termini che possono essere prospettati per un eventuale rinvio a giudizio dei due fucilieri, che se è vero che sarebbe del tutto ingiustificato sulla base delle prove che scagionano i nostri, è pur sempre una eventualità da annoverare nell’ambito dei possibili sviluppi della vicenda. In conclusione, gli indiani stanno facendo come Penelope, la quale promise di comunicare la sua decisione in merito al prescelto per il trono di Itaca al posto del marito Odisseo (Ulisse), dato per morto, appena completata una tela che tesseva di giorno e disfaceva di notte. Lei andò avanti per una ventina d’anni con questo sistema. Gli indiani stanno facendo di peggio. Intanto si astengono da qualsiasi presa di posizione circa il conflitto di giurisdizione che dovrebbero riconoscere all’Italia secondo diritto internazionale, con ciò addirittura impedendo che il caso possa essere affrontato con l’atteggiamento positivo di volerlo risolvere. Poi si inventano ostacoli che non esistono, come quello della traduzione in inglese che ha comportato l’allungamento di due mesi dei tempi concessi per la predisposizione del Rapporto conclusivo sulle indagini. Adesso hanno creato una diga di cemento sul cammino verso la ricerca della verità processuale, richiedendo ciò che sanno che l’Italia non potrà concedere loro mai: gli altri quattro Marò, dei quali possiedono già le testimonianze, per cui l’insistenza con cui pretendono la loro consegna appare sospetta e pretestuosa. A questo punto ci chiediamo che si aspetta ancora a denunciare e sputtanare l’India in tutti i consessi internazionali? C’è un nervo scoperto nella politica estera dell’India, l’ambizione più volte manifestata di essere cooptata nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU per meglio tutelarsi nei confronti di temibili potenze come la Cina e la Russia, o da nemici giurati come il Pakistan e lo Sri Lanka. E’ di ieri la notizia dell’uccisione di 5 soldati indiani lungo il cosiddetto Loc (Line of control) nel settore Poonch del Kashmir-Jammu della contrastata linea di confine con il Pakistan, morti per le quali l’India nulla può rivendicare se non lamentarsene. L’Italia è tra quelli che ha sempre sostenuto la candidatura dell’India, ora sarebbe giunto il momento di fargliela pesare. Per entrare nel CdS l’India si può scordare il voto della Cina, e forse pure quello della Russia, mentre Francia e Regno Unito non paiono impazienti di dare il loro consenso. L’Italia potrebbe minacciare l’India di schierarle contro non solo i suoi nemici dichiarati, ma tutti i Paesi alleati in ambito europeo e mondiale, Stati Uniti compresi. Di fronte ad una prospettiva del genere siamo certi che l’India scenderebbe rapidamente a più miti propositi e la faccenda dei Marò si risolverebbe in un amen. Anche se prima di arrivare a questo riteniamo che per riportare Max e Salvatore a casa sarebbe bastato, e basterebbe ancora, far convocare d’urgenza il Consiglio di Sicurezza investendolo del caso che si configura come un vero e proprio atto di aggressione militare all’Italia. Ma chissà perché la cosa più semplice da farsi per risolvere questo drammatico contenzioso non sia ancora neanche stata presa in considerazione. di Rosengarten © 2013 Qelsi

Nessun commento:

Posta un commento