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Eppure la notizia è vecchia di vent’anni perché fu nel 1995 che la giornalista inglese Frances Stonor Saunders pubblicò i risultati della sua inchiesta in The Cultural Cold War (la guerra fredda della cultura) basato sulle rivelazioni dei vecchi dirigenti della Cia che avevano ideato l’operazione. Erano proprio quegli uomini a paragonarsi ai principi e ai papi italiani del Rinascimento: «salvo il dettaglio della segretezza, noi siamo papi in incognito».

Senza i papi non ci sarebbero stati la Cappella Sistina, Raffaello e Michelangelo. Senza la Cia, niente Jackson Pollock, Willem De Kooning, Mark Rothko e tutti gli artisti che imposero New York come capitale mondiale dell’arte, surclassando Parigi. Chi era il loro papa? La Cia. Scopo? Battere i russi nella conquista degli intellettuali, specialmente francesi e italiani. Secondo un principio di senso gramsciano: chi ha dalla sua parte gli intellettuali, gli artisti, i giornalisti, vince la guerra della comunicazione. E del consenso.
Gli intellettuali europei, durante e dopo la guerra, specialmente in Italia e Francia, erano passati in blocco al Partito comunista. In Italia la trasmigrazione fu pressoché totale. Tutti cercarono di cancellare il loro passato fascista che arrivava almeno fino alle leggi razziali, e in molti casi oltre. Soltanto Carlo Levi era stato fin dall’inizio antifascista. L’adesione al Partito comunista era stata così massiccia da diventare un problema per il segretario del PCI Palmiro Togliatti. Antonello Trombadori, critico d’arte del partito, fu incaricato di visitare gli artisti diventati comunisti per costruire (a posteriori) la storia del tormentato distacco dal fascismo. Ne nacquero liti e perfino qualche scazzottatura tra gli amici di Corrado Cagli e Renato Guttuso ma l’operazione fu condotta in porto. Questo imponente «travaso» di intellettuali e artisti nelle file comuniste allarmò la Cia fin dal momento dalla sua nascita, nel 1947.
La maggior parte dei suoi dirigenti era di sinistra anche se non comunista. Quasi tutti provenivano dall’Oss (Office of Secret Service) nato durante la Seconda guerra mondiale. Molti agenti dell’Oss erano stati volontari nella guerra di Spagna come combattenti repubblicani nella Lincoln Brigade. Erano per lo più artisti piuttosto snob – Ernest Hemingway era uno di loro – sicché la sigla Oss fu tradotta ironicamente come «Oh! So Social». Come dire: Oh! Così radical-chic!
Bisogna anche tener conto che negli Stati Uniti il partito comunista americano, il PcUsa, era una realtà tutt’altro che trascurabile.
Fin dagli anni Trenta aveva «arruolato» la maggior parte degli scrittori e cineasti, seguendo una linea intransigente nei confronti di Mosca nel periodo dell’oscena alleanza fra Hitler e Stalin del 1939 e ancora più dura nei confronti dei comunisti francesi accusati di essersi adeguati a quel patto. La maggior parte dei pittori Usa che la Cia intendeva promuovere, come Jackson Pollock, Rothko, Arshile Gorki e tutti gli altri, era più o meno apertamente comunista, spesso anti-americana e talvolta simpatizzante per l’Unione Sovietica. Alcuni di loro sarebbero impazziti di rabbia se avessero saputo che i servizi segreti volevano «foraggiarli» per usarli in chiave anticomunista.
Fu proprio fra questi pittori che la Cia andò a pescare i suoi campioni, al fine di promuovere l’idea degli Stati Uniti come patria della libertà e dell’anarchia artistica. L’opposto, insomma, dell’Unione Sovietica (e dei suoi seguaci europei) in cui l’arte astratta era derisa e scoraggiata se non perseguitata.
Tuttavia, neanche in patria, i pittori astratti godevano di buona fama. Derisi («Non comprate un quadro astratto, fatevelo a casa»), trattati da scansafatiche incompetenti («Se questa è arte, allora io sono un Ottentotto» osservò il presidente Truman) i pittori astratti americani si trovarono improvvisamente un’autostrada davanti: le loro opere venivano adottate dal MoMA e dal Whitney Museum. Di più, erano promosse all’estero, specialmente in Europa; andavano alla Biennale di Venezia o alla Tate di Londra; e ogni volta che si prospettava una trasferta all’estero, molto costosa, si trovava un magnate miliardario che (apparentemente) pagava di tasca sua. Uno di questi magnati era Nelson Rockefeller il quale quando si riferiva al Museum of Modern Art lo chiamava il «Mom museum», il museo di mamma, visto che sua madre era stata una delle quattro zelanti fondatrici. Rockefeller fingeva di metter mano al portafoglio. Ma in realtà pagava la Cia. Agenti o ex agenti di altissimo grado, come William Paley o John Hay Whitney sedevano nei vari board del Moma. Tom Braden, altro pezzo grosso della Cia, ne fu segretario esecutivo nel 1949.

Nello stesso periodo di tempo il Partito comunista sovietico scatenava una campagna brutale contro la pittura moderna, bollata come arte degenerata (come era accaduto nella Germania di Hitler) decadente e disgustosamente borghese. I comunisti arrivarono ad insultare il comunista Pablo Picasso per Guernica, la più famosa e impegnata delle sue opere.
Se negli Stati uniti il senatore McCarthy lanciava la sua caccia alle streghe contro gli artisti sospetti di simpatie comuniste, dall’altra, a Mosca Andrej Aleksandrovic Zdanov lanciava la sua caccia alle streghe contro l’arte moderna.
In Italia la campagna zdanovista fece le sue vittime. A esempio Renato Guttuso fu redarguito per le sue «picassate alla siciliana». Ma a dettare la linea ci pensò Palmiro Togliatti in persona attraverso il settimanale ideologico del Pci Rinascita dove pubblicò un breve corsivo intitolato Scarabocchi .
Era la recensione di una esposizione bolognese di «pittura moderna»: «È una raccolta di cose mostruose, riproduzioni di cosiddetti quadri, disegni e sculture». Il tono era paternalistico ma il messaggio era chiaro. Le tentazioni astrattiste «all’americana» dovevano essere represse per tornare all’arte al servizio del popolo. Il fascismo, che pure aveva lasciato gli artisti scatenarsi a piacimento, aveva incoraggiato un’arte monumentale massiccia e proletaria – basta pensare al monumentalismo di Sironi : operai nerboruti, contadine poppute, fabbriche operose, ciminiere affumicatrici.
Dall’altra parte dell’Oceano Jackson Pollock dipingeva danzando sulla tela distesa sul pavimento e lasciando cadere colori liquidi al passo degli indiani «Orsi tranquilli» con cui aveva condiviso l’infanzia contadina. I bravi borghesi americani, più vicini a Togliatti che a Marcel Duchamp (che fu il vero scopritore di Pollock e lo impose a Peggy Guggenheim, inizialmente molto perplessa) trattavano con disprezzo le composizioni che la stampa borghese definiva ironicamente come «Drip drop and splash», cioè gocciola lascia cadere e schizza.
La Cia era molto più avanti del critico medio: si comportava davvero come un mecenate in aperto conflitto con le tendenze più "reazionarie" negli Stati uniti. E non si limitava a promuovere i pittori americani, andava anche a caccia di intellettuali stranieri – fra cui l’italiano Ignazio Silone, il francese André Gide e persino George Orwell con la sua Fattoria degli animali – e delle loro opere. La CIA promuoveva, assumeva, arruolava e con le sue patinate pubblicazioni proteggeva e legittimava.
Tutto ciò, come ho ricordato, fu raccontato, documentato e pubblicato nel 1995 dalla giornalista britannica Frances Stonor Saunders che il 22 ottobre di quell’anno pubblicò un articolo: Modern Art was a Cia weapon , l’arte moderna fu un’arma della Cia. L’inchiesta fu ripresa poi nel 1998 da James Petras che ne scrisse sulla Monthly Review , la più prestigiosa rivista marxista in lingua inglese. Petras sosteneva che molti intellettuali arruolati dalla Cia sapevano benissimo chi li pagava. Quando si permisero di fare i capricci, sostenendo di essere stati raggirati, Tom Braden li sputtanò è dimostrò che quelli che adesso facevano gli schizzinosi sapevano perfettamente da dove arrivavano i soldi. Ma a parte qualche screzio, l’operazione andò avanti a gonfie vele.
Comunque la Cia aprì decine di periodici fra cui il celebre Encounter , fondato dal poeta Stephen Spender col giornalista Irving Kristol, promovendo scrittori, scultori, musicisti, concerti, cantanti, compositori, spettacoli teatrali. Organizzò persino lunghe tournee di Louis Armstrong e altri cantanti neri mandati in giro per l’Europa al fine di correggere l’immagine del conflitto razziale in Alabama e nel Sud. Ma i pittori furono i più coccolati: partecipavano alle biennali di Venezia ed esponevano nei musei dell’Europa occidentale. Tutto ciò costava un sacco di soldi, ma l’agenzia li considerava soldi ben spesi.
In Italia questa politica ebbe effetto: permise infatti a molti artisti – di sinistra ma angariati dalle direttive del Pci allineato con Mosca – di non tener conto delle rudi reazioni della stampa di partito, protetti dalle lussuose e patinate pubblicazioni finanziate dalla Cia. Ciò permise ad artisti di grande talento astratto come Lucio Fontana e Alberto Burri di sganciarsi dal realismo e seguire il proprio cammino. Burri era stato un tenente medico durante la Seconda guerra mondiale, catturato dagli americani in Africa e spedito in un campo di concentramento in Texas. Fu contaminato dal clima di felice anarchia creativa che permeava l’America, cosa che gli permise di avviare la sua ricerca nei tormenti della materia: plastiche fuse, sacchi di iuta, metalli contorti sui quali scaricava il suo fucile di grosso calibro usato come pennello.
Tutto ciò non sarebbe stato gradito alla cultura comunista, ma fu graditissimo alla cultura americana promossa dalla Cia.
L’arte astratta fu davvero l’arma segreta degli americani durante la guerra fredda?...
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