Il patto di ferro tra Usa e Giappone (in vista di una nuova guerra fredda)
DI Diego Angelo Bertozzi In un suo intervento su Foreign Policy, John Reed ha scritto: “Funzionari degli Stati Uniti giurano che il ri-bilanciamento diplomatico e militare dell'America in Asia non è un tentativo di contenere una Cina in ascesa. Ma di sicuro alle porte di Pechino si trova una potenza di fuoco superiore”1. Al di là di distensive e ripetute dichiarazioni diplomatiche, il “Pivot to Asia”, messo in atto dall'amministrazione Obama, prosegue nella sua opera di “contenimento” della Repubblica popolare cinese. Lo dimostra ancora di più l'accordo raggiunto ad inizio ottobre tra Stati Uniti e Giappone. Accordo che, secondo il New York Times, oltre ad approfondire una storica alleanza amplia il “ruolo del Giappone nel tentativo di mostrare la volontà americana di rimanere una presenza dominante nella regione” e ribadisce “gli sforzi dei due Paesi nella risposta alle crescenti sfide provenienti dalla Cina e dalla Corea del Nord in periodo di restrizioni di bilancio”2. Quali sono i contenuti dell'accordo siglato durante la visita di segretario di Stato John Kerry e del ministro della Difesa Chuck Hagel? Oltre al permesso concesso agli Stati Uniti per la costruzione di un nuovo sistema radar in banda X a Kyogamisaki (non lontano da Tokyo), per la prima volta droni statunitensi avranno base anche in Giappone. Dalla primavera 2014, infatti, due o tre RQ-4 Global Hawk di alta quota permetteranno ai comandi Usa di monitorare facilmente il Mar cinese orientale, comprese le isole Diaoyu/Senkaku, oggetto di contesa tra Pechino e Tokyo e in relazione alle quali Kerry ha riconosciuto l'amministrazione giapponese e, di conseguenza, la copertura del Trattato di sicurezza. Arriveranno anche due squadroni di MV-22 Osprey, aerei in grado di decollare e atterrare verticalmente, ognuno dei quali può trasportare una ventina di marines anche su lunghe distanze, e , a partire dal 2017, cacciabombardieri di quinta generazione F-35B Joint Strike Fighters. Per far fronte gli sviluppi della Marina militare cinese, la Us Navy stanzierà inoltre anche esemplari del nuovissimo P-8 Poseidon, versione “navale” del Boeing 737, dotato di attrezzatura sonar, potenti radar, siluri e missili anti-nave Harpoon. Le misure militari sono inserite nel più ampio quadro politico dell'accordo, descritto come una vera e propria “visione strategica” per l'Asia Orientale e il Pacifico che riflette i “nostri valori condivisi della democrazia, dello Stato di diritto, dei mercati liberi e aperti e del rispetto dei diritti umani”. Facile capire questa comunità del Pacifico – proprio come quella ipotizzata dal TPP - escluda per principio la Cina popolare. Di tale “comunità” aveva parlato, nel maggio scorso, il primo ministro giapponese Abe durante una visita in India al suo corrispettivo indiano Singh: spetta alle due democrazie, l'India da ovest e il Giappone da est, il compito di mantenere l'Asia pacifica. Lalit Mansingh, ex diplomatico indiano e analista di questioni strategiche, aveva così commentato l'incontro: “è abbastanza chiaro che tutto questo sta accadendo con la Cina come sfondo, perché sia il Giappone che l'India la considerano come una minaccia. […] Il primo ministro giapponese vuole ridefinire l'Oceano Indiano e il Pacifico come una comunità di democrazie marittime che esclude automaticamente la Cina”3. Ma il dato politico più importante dell'accordo è un altro: gli Stati Uniti “accolgono” l'espansione del bilancio militare giapponese e il progetto di revisione della Costituzione pacifista per permettere all'esercito nipponico di correre in soccorso di un alleato aggredito (eventualità ad oggi vietata). Questo in linea con la volontà espressa dal ministro alla difesa Onodera di avviare una revisione della filosofia della difesa giapponese in modo da arrivare ad un esercito normale e rispondere alle crescenti minacce rappresentate da Cina e Corea del Nord4. Resta da capire come possa coniugarsi con la “comunità democratica asiatica” il progetto di revisione costituzionale suggerito dal vice-premier nipponico Taro Aso, secondo cui l'esempio da seguire sarebbe quello dei pazienti nazionalsocialisti tedeschi: “Un giorno, la gente ha capito che la costituzione di Weimar si era modificata in costituzione nazista. Nessuno l'aveva notato. Perché non impariamo da questo approccio?”5. Ci troviamo di fronte ad un rinnovato clima da “guerra fredda” con baricentro in Asia Orientale? Pare proprio di sì, se a prendere a prestito questa espressione sono responsabili militari degli Stati Uniti come il generale Herbert Carlisle, capo delle operazioni delle Forze aeree degli Usa nel Pacifico. È lui a paragonare il dispiegamento dell'aeronautica in Asia a quello messo in campo in Europa in funzione anti-sovietica. Il nemico non è chiaramente esplicitato, ma per far fronte all'emergere dell'assertività e aggressività cinese serve l'espansione dell'Air Force in Asia attraverso basi temporanee americane in un arco che comprende “Tinian e Saipan nelle Marianne, Australia, Singapore, Thailandia, India, Filippine, Malesia e Indonesia”, da aggiungere alle basi permanenti già attive in Giappone, Corea del Sud e Guam6. A questo c'è da aggiungere – invito certo interessato che coincide con il mancato viaggio di Obama in Asia – la chiamata alla guerra ideologica che arriva dall'American Enterprise Institute, importante think tank la cui missione dichiarata è quella di difendere i principi e le istituzioni della libertà americana, il governo limitato, l'impresa privata e la libertà individuale. Ebbene, di fronte all'aggressivo e subdolo comportamento cinese, viene riproposta la crociata anti-comunista: “mentre gli Stati Uniti sono occupati con il Medio Oriente, i leader cinesi stanno perseguendo un ordine del giorno per l'Asia che contrasta con l'avanzata della democrazia e della stabilità, principali obiettivi americani nella regione”7. |
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