1870-1914
: l’Età dell’Imperialismo
PREMESSA
Il
periodo che va dal 1870 al 1914 (anno d’inizio della Prima Guerra
Mondiale) presenta caratteri che lo distinguono nettamente dal
periodo precedente e da quello successivo. Tali caratteri sono:
una
fase di crisi economiche dal 1871 al 1896 (“Grande depressione”),
ma anche un grande sviluppo del capitalismo e
dell’industrializzazione (“Seconda rivoluzione industriale); in
questa fase si cercò di limitare la concorrenza per mezzo delle
concentrazioni e del protezionismo doganale.
un
lungo periodo di pace in Europa, e la colonizzazione dell’Africa e
dell’Asia attuata dagli Stati europei;
la
formazione della società di massa, e la crescita della potenza
degli Stati, che assumono competenze sempre più vaste, e che
esercitano un controllo e un condizionamento più forte sulla vita
dei cittadini;
in
campo culturale il predominio del positivismo, una filosofia che
vede nella scienza l’unica forma di conoscenza valida e l’unica
risposta ai problemi dell’umanità; il darwinismo sociale è una
manifestazione della mentalità positivista; alla fine del secolo
però emergono anche filosofie e tendenze culturali
irrazionalistiche, che esercitano una notevole influenza anche sulla
politica.
LA CRISI ECONOMICA,
L’EVOLUZIONE DEL CAPITALISMO, LA “SECONDA RIVOLUZIONE
INDUSTRIALE”, CONCENTRAZIONI E PROTEZIONISMO.
Gli
anni dal 1873 al 1896 sono stati definiti anni della Great
Depression perché
sono stati anni di crisi economica, di difficoltà per l’industria,
per l’agricoltura e per i lavoratori. Bisogna tuttavia
distinguere: per quel che riguarda l’industria non siamo di fronte
a una “grande” crisi, a una paralisi o a un calo della produzione
industriale: siamo piuttosto di fronte a una crisi di assestamento, a
un rallentamento della crescita economica determinato dalla
sovrapproduzione:
i mercati europei sono ormai saturi, la produzione industriale supera
la richiesta di beni e quindi i prezzi dei prodotti industriali
calano, calano di conseguenza i profitti e le possibilità di
investimento per i capitalisti (per esempio: gli Stati stanno
portando a termine i loro programmi di costruzione di reti
ferroviarie nazionali, e quindi si costruiscono ancora ferrovie, ma
non con gli stessi ritmi e nella stessa quantità del periodo
1815-1870; pertanto i costruttori di rotaie e di treni vedono
notevolmente ridotta la possibilità di realizzare grandi
investimenti e grandi affari); anche l’intensificazione della
concorrenza
internazionale favorita dalla diffusione dell’industrializzazione
nel mondo e dallo sviluppo dei trasporti tiene bassi i prezzi e
determina difficoltà per le industrie, soprattutto per quelle
piccole e medie. Per i lavoratori salariati le conseguenze della
crisi non sono però disastrose, perché essi beneficiano della
diminuzione dei prezzi, e anche perché la crescita delle
organizzazioni sindacali e politiche del movimento operaio offre ai
lavoratori tutele più efficaci.
L’agricoltura
europea invece è colpita da una grave crisi provocata dalla
concorrenza dei prodotti agricoli (cereali soprattutto) americani. In
America i cereali vengono prodotti con costi molto più bassi (grazie
alla fertilità dei suoli, all’organizzazione economica, alla
meccanizzazione): dopo il 1870, per effetto dello sviluppo dei mezzi
di trasporto (grandi navi a vapore), diminuiscono considerevolmente
anche i costi di trasporto, e così i cereali possono essere
trasportati e venduti in Europa. Gli agricoltori europei, soprattutto
quelli delle regioni in cui l’agricoltura è più arretrata (Italia
meridionale, Irlanda, Spagna…) non riescono a far fronte alla
concorrenza dei prodotti esteri, e vengono rovinati: da ciò trae
origine il drammatico fenomeno dell’emigrazione degli abitanti di
queste regioni verso l’America, l’Australia e gli stati più
ricchi del nord-Europa (dall’Italia partono complessivamente, prima
della Grande Guerra, circa 8 milioni di emigranti).
La
crisi economica comunque ebbe anche l’effetto di spingere
capitalisti e uomini politici ad attuare importanti trasformazioni e
innovazioni nelle attività produttive, nell’organizzazione delle
imprese e nella politica economica.
In
primo luogo i capitalisti aprirono una nuova fase
dell’industrializzazione (definita “Seconda
rivoluzione industriale”):
fu avviata la produzione industriale in settori nuovi: industria
chimica, industria elettrica, industria automobilistica, (nella prima
rivoluzione industriale i settori interessati erano stati quello
tessile e quello siderurgico e meccanico); l’industria siderurgica
fu inoltre rinnovata dall’invenzione di nuovi metodi per la
produzione dell’acciaio.
Le
nuove industrie si basavano su una stretta relazione tra scoperte
scientifiche e applicazioni tecnologiche industriali; per esempio
l’industria elettrica utilizzò gli studi sull’elettricità di
Hertz e Maxwell e l’invenzione della dinamo (Pacinotti, 1860) e
della lampadina (Edison, 1879); l’industria automobilistica sfruttò
l’invenzione del motore a scoppio (Daimler e Benz, 1885, Diesel,
1897) e così via .
Queste
nuove industrie suscitarono nuove attività produttive o rinnovarono
e potenziarono quelle già esistenti: dall’industria chimica, per
esempio, trassero giovamento l’agricoltura (fertilizzanti),
l’industria farmaceutica, l’industria alimentare (conservanti),
l’industria tessile (fibre artificiali e coloranti), l’industria
automobilistica (gomma per i pneumatici e derivati del petrolio);
l’invenzione della dinamo consentì lo sfruttamento a fini
industriali dell’energia elettrica (prodotta per mezzo di centrali
idroelettriche e a vapore). Inoltre all’inizio del Novecento si
cominciò a organizzare il lavoro nelle fabbriche secondo il sistema
teorizzato dall’ingegner Taylor (taylorismo),
che assegnava ad ogni lavoratore operazioni semplici e ripetitive, da
compiere in tempi prestabiliti e subordinati al ritmo di produzione
delle macchine ( >catena di montaggio, applicata per la prima
volta nella produzione della Ford modello T, nel 1909).
Tutte
queste innovazioni modificarono profondamente la vita quotidiana,
soprattutto nelle grandi città: basti pensare all’illuminazione
delle città, allo sviluppo dei trasporti e delle comunicazioni, ai
progressi della medicina.
In
secondo luogo i capitalisti reagirono alla crisi cercando di limitare
la concorrenza per mezzo di concentrazioni: furono creati Cartelli
(accordi di mercato tra più imprese dello stesso settore) e Trusts
(fusioni di imprese), in modo da creare delle situazioni di monopolio
o oligopolio .
Un’altra
innovazione nell’organizzazione delle imprese fu determinata dalla
necessità di reperire ingenti capitali per finanziare le nuove
attività; si dovette quindi ricorrere al mercato azionario e alle
banche: molte imprese si trasformarono in società per azioni, ma
soprattutto si realizzò un intreccio
tra finanza e industria:
le grandi banche, finanziando le imprese, ne assumevano anche il
controllo, acquistando azioni e inserendosi nei consigli di
amministrazione.
La
volontà di contrastare la concorrenza e l’abbandono del liberismo
classico si manifestarono anche nella svolta
protezionistica
attuata da quasi tutti gli Stati industrializzati. Solo
l’Inghilterra, che basava la sua prosperità in gran parte sul
commercio, rimase fedele al principio del libero scambio, mentre i
governi degli altri Stati decisero di proteggere le industrie e i
prodotti nazionali dalla concorrenza internazione adottando il
protezionismo doganale. Tuttavia, mentre si proteggeva la produzione
nazionale, spesso si cercava egualmente di invadere il mercato dei
paesi concorrenti, attuando per esempio il sistema del dumping
,
da ciò scaturirono “guerre doganali” (come quella tra Francia e
Italia, 1887-1898) che provocarono anche gravi contrasti politici.
PACE IN EUROPA,
COLONIALISMO E POLITICA ESTERA TEDESCA
Il
periodo 1870-1914 è stato, sostanzialmente, un periodo di pace in
Europa. Questa “lunga pace europea” (interrotta solo dalle brevi
e circoscritte guerre combattute nella penisola balcanica tra le
nazioni slave, la Russia e l’Impero turco-ottomano, nel 1877-78,
nel 1912 e nel 1913), inizia dopo le rivoluzioni e le guerre che
hanno modificato, dal 1848 al 1870, l’assetto geopolitico del
Congresso di Vienna: dal 1848 al 1870 l’Italia e la Germania hanno
realizzato l’unificazione politica, la Francia è diventata una
repubblica, tutti gli Stati europei (eccetto la Russia) hanno
abbandonato l’assolutismo e hanno adottato sistemi politici
liberali; inoltre la Germania, sconfiggendo la Francia, è diventata
la prima potenza dell’Europa continentale, mentre l’Inghilterra
ha conservato il suo primato mondiale nella produzione industriale,
nel commercio, nella finanza, nel controllo dei mari.
La
situazione di pace che si stabilisce in Europa dopo il 1870 è
soprattutto il frutto della politica estera tedesca e della
colonizzazione dell’Africa e dell’Asia attuata dagli Stati
europei.
Infatti
dopo il 1870 la conquista delle colonie impegna le maggiori potenze
europee (in primis l’Inghilterra e la Francia) in una specie di
gara: le tendenze espansioniste, belliciste e nazionaliste si
“sfogano” così in questa competizione per la conquista dei
territori extraeuropei più estesi, più ricchi o più utili dal
punto di vista strategico-militare.
Anche
la politica estera tedesca contribuisce a mantenere la pace. La
Germania si è unificata politicamente nel 1870, dopo aver sconfitto
l’impero austriaco e l’impero francese di Napoleone III; la
Germania (il secondo Reich) è diventata anche la più grande potenza
europea, il “perno” dell’equilibrio europeo. Il capo del
governo tedesco, il cancelliere Ottone di Bismark, è convinto che la
Germania, per consolidarsi come Stato e per conservare il ruolo di
grande potenza, debba mantenere la pace in Europa: un nuovo conflitto
in Europa potrebbe fornire alla Francia, sconfitta e umiliata nella
guerra franco-prussiana, l’occasione per cercare una rivincita
sulla Germania e per recuperare l’Alsazia e la Lorena (conquistate
dai tedeschi).
Pertanto
Bismark limita le conquiste coloniali della Germania per non entrare
in competizione con gli altri Stati europei; al contrario favorisce
l’espansione coloniale francese, in modo da creare rivalità e
attriti tra Francia e Inghilterra.
Bismark
vuole che la Francia rimanga diplomaticamente isolata, senza alleati:
per ottenere ciò egli stringe delle alleanze con gli altri Stati
europei, in modo da escludere la Francia. Dapprima egli stipula il
Trattato dei Tre Imperatori (della Germania, dell’Austria e della
Russia), poi, quando questo Trattato va in crisi a causa della
rivalità tra Russia e Austria ( sia la Russia che l’Austria
vorrebbero espandersi nei Balcani, approfittando del declino e della
“ritirata” dell’Impero turco), stringe la Triplice Alleanza tra
Germania, Austria e Italia (l’Italia, tradizionalmente “amica”
della Francia e “nemica dell’Austria, entra in questa alleanza
“innaturale” perché i rapporti tra Italia e Francia si sono
guastati a causa della conquista francese della Tunisia); inoltre
stipula il Patto di Contro-assicurazione tra Germania e Russia, in
base al quale ognuno dei due contraenti assicura all’altro che non
gli muoverà guerra in caso di conflitto europeo (in tal modo la
Francia non potrà allearsi con la Russia contro la Germania). Rimane
l’Inghilterra, ma, come sappiamo, essa preferisce non coinvolgersi
nelle vicende europee (se non sono minacciati i suoi interessi), e
inoltre la competizione coloniale rende difficili i rapporti tra
Francia e Inghilterra.
Oltre
al sistema delle alleanze , Bismark mantiene la pace in Europa anche
convocando a Berlino due Congressi per risolvere diplomaticamente
gravi contrasti internazionali. Il primo Congresso, nel 1878, definì
i confini degli Stati della penisola balcanica dopo la guerra
russo-turca (la “sistemazione” dei Balcani concordata a Berlino
durò fino al 1912); il secondo Congresso, nel 1884-85, giunse a un
accordo sulla spartizione dell’Africa tra le potenze europee; il
successo di questi Congressi accrebbe il prestigio internazionale del
Reich tedesco che li aveva convocati e che aveva assunto il ruolo di
mediatore.
LA COLONIZZAZIONE
DELL’AFRICA E DELL’ASIA, L’IMPERIALISMO
Vari fattori determinarono,
negli ultimi decenni dell’800, quella corsa alla conquista
coloniale che costituì il più caratteristico tratto
dell’imperialismo europeo. Vi fu certamente la spinta
esercitata dagli interessi economici (ricerca di materie prime a
basso costo e di sbocchi per i prodotti industriali e i capitali
d’investimento), ma non meno importante fu l’affermarsi di
tendenze politico-ideologiche che affiancavano a un acceso
nazionalismo la fede nella superiorità della civiltà europea e
nella missione civilizzatrice dell'uomo bianco; inoltre il
darwinismo sociale, vale a dire l’applicazione delle teorie
darwiniane alla società umana, interpretava le differenze culturali
tra i popoli in termini di evoluzione e giustificava (in base al
principio della selezione naturale) la competizione tra i popoli e il
dominio dei popoli più forti ed evoluti su quelli più deboli, meno
evoluti. Va segnalato che il fenomeno della colonizzazione, inteso
come strumento del progresso dell’umanità, fu giustificato anche
da molti esponenti del movimento socialista (tra i quali lo stesso
Marx).
Il dibattito storiografico
sulle cause del colonialismo
Riguardo alle cause economiche
va segnalata la tesi sostenuta all’inizio del Novecento
dall’economista inglese John Hobson, nel saggio “L’imperialismo”
(1902): secondo Hobson la colonizzazione che aveva permesso ai
maggiori Stati europei di costituire degli imperi coloniali era
collegata alla Great Depression ed era stata voluta dai capitalisti
che pensavano di poter risolvere il problema della sovrapproduzione e
della concorrenza internazionale acquisendo il controllo di grandi
aree commerciali protette: quindi per Hobson i governanti avevano
colonizzato rispondendo alle esigenze e alle pressioni dei
capitalisti: per i capitalisti le colonie erano nuovi mercati dove
essi potevano vendere i prodotti in eccesso, dove potevano investire
con profitto i loro capitali, dove potevano comprare materie prime a
basso prezzo. La tesi di Hobson era stata fatta propria anche da
Lenin nel suo saggio “L’imperialismo
fase suprema del capitalismo”.
L’interpretazione economicista del colonialismo sostenuta da Hobson
e Lenin (e in genere dagli storici marxisti), fu poi contestata da
storici di orientamento liberale (Joseph Schumpeter, D. Fieldhouse,
R. Cameron ecc.) i quali osservarono che le conquiste coloniali molto
spesso erano imprese anti-economiche, realizzate per motivi di
politica estera ed interna; il sociologo Schumpeter, p.e., sostenne
che il capitalismo (orientato al perseguimento dell’interesse
attraverso la concorrenza
e il libero gioco della domanda e dell’offerta) era un sistema
economico essenzialmente razionale e pacifico, mentre l’imperialismo
di fine Ottocento nasceva dalle forze irrazionali, passionali e
istintive dell'uomo (“l'assurda
tendenza di uno stato a perseguire un'espansione illimitata e
violenta”). Altri
studiosi hanno invece attribuito un carattere irrazionale, egoistico
e antisociale al capitalismo, e hanno quindi evidenziato
un’aggressività connaturata al capitalismo fin dalle sue origini.
Il dibattito storiografico sul
colonialismo è tutt’altro che risolto, anche se oggi generalmente
gli storici ammettono il concorso di cause molteplici: essi ritengono
che le cause economiche della colonizzazione siano state importanti,
ma che i governi siano stati spinti alla colonizzazione anche da
altre motivazioni, tra le quali la politica di potenza, che spingeva
gli Stati alla conquista di colonie in vista di un rafforzamento
della propria posizione internazionale; un altro movente della
colonizzazione era l’esigenza dei governi di consolidare il proprio
potere e di ottenere consensi popolari per mezzo di conquiste che
generalmente erano accolte con grande favore dall’opinione
pubblica; e l’orientamento favorevole dell’opinione pubblica era
determinato dalle tendenze culturali e ideologiche già menzionate:
nazionalismo, razzismo, darwinismo sociale, bellicismo estetizzante
ecc.
Le modalità e le tappe delle
conquiste
Le
potenze
conquistatrici fecero generalmente un uso indiscriminato della
forza contro le popolazioni indigene; sconvolsero l’economia
dei paesi afroasiatici sottoponendola a un sistematico
sfruttamento; colpirono, spesso irrimediabilmente, antiche
culture. Tuttavia gli effetti della conquista non furono sempre
e solo negativi: sul piano economico, essa significò anche, in molti
casi, un inizio di modernizzazione, sia pure finalizzata agli
interessi dei dominatori; su quello culturale, alcuni paesi con
tradizioni e strutture politico-sociali più solide riuscirono a
difendere la loro identità ovvero ad assimilare aspetti della
cultura dei dominatori; sul piano politico, infine, la
colonizzazione, più o meno a lunga scadenza, favorì il
formarsi di nazionalismi locali che successivamente avrebbero
alimentato la lotta per l’indipendenza.
Agli inizi dell’età
dell’imperialismo, gli europei avevano già numerosi possedimenti
in Asia. Più importante di tutti, l’India, soggetta dal '700
alla dominazione della Gran Bretagna e affidata al controllo della
Compagnia delle Indie. I tentativi inglesi di introdurre
elementi di modernizzazione nell’arcaica società indiana
suscitarono violente reazioni (rivolta dei sepoys,
1857), cui il governo britannico rispose con una sanguinosa
repressione e con la riorganizzazione della colonia sotto
la diretta amministrazione della corona. L’apertura del canale
di Suez, nel 1869, diede nuovo impulso alla penetrazione europea in
Asia. In questo periodo si ebbero la conquista francese
dell’Indocina e lo sviluppo della colonizzazione russa della
Siberia (fino all’Oceano Pacifico). L’altra direttrice
dell'espansionismo russo - quella verso l’Asia centrale -
portò l'Impero zarista ad un duro contrasto con l’Inghilterra
(l’espansione verso sud della Russia si arrestò di fronte
all’Afghanistan, sottoposto all’inflenza inglese).
Una novità, sul piano della
competizione imperialistica, fu l’improvviso emergere del Giappone
che, dopo una guerra con la Cina (1894), le strappò vari territori.
La Cina (che era già stata costretta ad accettare la penetrazione
commerciale inglese in seguito alle Guerre dell’Oppio) dovette
inoltre concedere alle potenze europee delle zone d’influenza da
sfruttare economicamente. La trasformazione di queste zone
d’influenza (chiamate “concessioni") in veri e propri domini
coloniali fu impedita dagli Stati Uniti che fecero valere il
principio delle “porta aperte”: in base a tale principio la Cina
doveva essere aperta al commercio di tutti i paesi con pari diritti.
La presenza invadente degli
occidentali e dei giapponesi nell’Impero cinese favorì la nascita
del movimento xenofobo dei boxers
che si batteva per la restaurazione delle antiche
tradizioni imperiali e per l’espulsione degli stranieri e dei loro
costumi . La rivolta dei boxers provocò l’intervento militare
delle grandi potenze (1900-1902): la rivolta fu soffocata e l’impero
cinese fu mantenuto in vita, ma sempre più privato della sua
sovranità e sottoposto al controllo economico e politico degli
occidentali (p.e. le navi da guerra europee furono autorizzate a
navigare i grandi fiumi cinesi, e l’istruzione fu in gran parte
affidata ai missionari cristiani).
Fu
in Africa che
l’espansione coloniale si verificò con la velocità più
sorprendente, portando nel giro di pochi decenni alla conquista quasi
completa - sotto forma di colonie o protettorati - di tutto il
continente. Francia e Inghilterra occuparono rispettivamente Tunisia
(1881) ed Egitto (1882). Poco dopo (1884-85), la conferenza di
Berlino, convocata per risolvere i contrasti internazionali suscitati
dall’espansione belga nel Congo, stabiliva i principi della
spartizione dell’Africa e riconosceva il possesso di vari
territori a Belgio, Francia, Germania e Inghilterra. La Francia e
l’Inghilterra ebbero i più vasti possedimenti coloniali in Africa:
la Francia conquistò tutta l’Africa Nord-occidentale,
l’Inghilterra quasi tutta l’Africa orientale (dall’Egitto al
Sud-Africa); la Germania ebbe possedimenti coloniali meno estesi e
più dispersi; l’Italia si impadronì dell’Eritrea, della Somalia
e della Libia, fallì invece nel tentativo di conquista dell’Etiopia,
che rimase indipendente fino al 1936. Altre colonie europee furono il
Congo belga, l’Angola e il Mozambico portoghesi.
In Sud Africa l’Inghilterra,
soprattutto attraverso la politica di Cecil Rhodes, mirò ad
estendere il suo dominio dalla Colonia del Capo alle due repubbliche
boere
dell’Orange e del Transvaal, ricche di giacimenti d’oro
e di diamanti. II disegno poté realizzarsi solo dopo una lunga
e sanguinosa guerra, vinta dalla Gran Bretagna contro i boeri
(1899-1902). I boeri erano i discendenti degli olandesi che avevano
colonizzato questa regione nel Seicento; erano quindi bianchi,
europei, “civili”: pertanto in questo caso vennero meno le
giustificazioni ideologiche (la missione civilizzatrice degli
europei, “il fardello dell’uomo bianco” di Kipling) della
guerra e della conquista.
I PRINCIPALI STATI
EUROPEI dal 1870 al 1914
La
Germania di Bismark
Sebbene
il Reich tedesco fosse una confederazione di Stati che avevano propri
sovrani, la Prussia aveva una posizione dominante; il re di Prussia
era l’imperatore del Reich (il Kaiser Guglielmo I). Il cancelliere
Bismark, artefice dell’unificazione politica della Germania, fu il
capo del governo centrale fino al 1890, e detenne un potere quasi
illimitato, in quanto il governo non dipendeva dal Parlamento ma
esclusivamene dall’imperatore.
Il
Parlamento del Reich (Reichstag) era eletto a suffragio universale
maschile e aveva il potere legislativo, ma ebbe di fatto iniziativa
politica e legislativa assai limitata: le decisioni politiche
importanti furono lasciate al Cancelliere, che era sostenuto da un
“blocco di potere” costituito dall’aristocrazia terriera e
militare, dalla borghesia industriale e dall’alta burocrazia.
Dopo
l’unificazione Bismark in politica interna attuò:
una
politica economica finalizzata a creare un forte capitalismo
industriale attraverso l’ammodernamento dell’agricoltura (i cui
profitti erano reinvestiti nell’industria), e il sostegno alla
grande industria (per mezzo del protezionismo doganale e delle
commesse statali per le forze armate).
il
Kulturkampf (=lotta per la civiltà) contro il partito cattolico del
“Centro”; questo partito esprimeva le esigenze autonomistiche
degli Stati cattolici del Sud e delle minoranze etniche, come i
francesi dell’Alsazia Lorena. Bismark, temendo che queste tendenze
autonomistiche potessero indebolire il Reich, adottò provvedimenti
contro la Chiesa cattolica, limitandone gravemente la libertà
(furono poste restrizioni all’attività educativa e assistenziale,
alla stampa, alla predicazione, oltre che all’attività politica
del “Centro”); questa “battaglia” però non ebbe successo,
anzi suscitò molte adesioni al Centro e molte proteste (anche da
parte protestante) per la violazione della libertà religiosa.
Bismark pertanto abbandonò questa politica anticattolica, anche
perché, preoccupato per l’ascesa del Partito Socialdemocratico,
vide nel Centro cattolico un possibile alleato contro il socialismo.
lotta
contro il Partito socialdemocratico tedesco (nato nel 1875 dalla
fusione tra la corrente marxista e quella di F.Lassalle, puntava
alla realizzazione del socialismo non attraverso la rivoluzione ma
la lotta parlamentare). Bismark cercò di frenare l’ascesa del
Partito socialdemocratico attraverso misure repressive (limitazioni
della libertà di associazione e di stampa, varate nel 1878), ma
anche attraverso una legislazione sociale con cui lo Stato
interveniva a favore dei lavoratori (anche in questo caso si
rigettava la dottrina liberista): la legislazione sociale tedesca
introdusse (per la prima volta in Europa) le assicurazioni
obbligatorie sugli infortuni, le malattie e la vecchiaia: tali
assicurazioni venivano pagate in parte dai lavoratori, in parte dai
datori di lavoro e in parte dallo Stato.
La
politica antisocialista di Bismark non riuscì ad arrestare la
crescita dei consensi al Partito socialdemocratico: nel 1890 furono
eletti 35 deputati socialdemocratici.
Nello
stesso anno il Kaiser Guglielmo II, succeduto al kaiser Guglielmo I,
decise di licenziare Bismark, non solo per il fallimento nella lotta
contro il socialismo, ma anche perché non ne condivideva la politica
estera, troppo prudente. Guglielmo II voleva una politica estera più
aggressiva, voleva inoltre che anche la Germania avesse un impero
coloniale, e inoltre voleva dirigere lui stesso la politica estera
del Reich, e quindi Bismark fu messo da parte.
La
nuova politica estera di Guglielmo II si manifestò principalmente
nel rafforzamento dell’esercito (che provocò in Europa una
generale “corsa al riarmo”), nella costruzione di una grande
flotta da guerra, in grado di mettere in discussione la supremazia
navale inglese, nel tentativo di acquisire nuove colonie, che portò
alle due crisi marocchine del 1905 e del 1911: queste crisi si
verificarono quando la Germania si oppose (anche con minacce di
guerra e con invio di navi da guerra di fronte alla costa marocchina)
all’occupazione del Marocco da parte della Francia; le crisi
vennero risolte diplomaticamente: la Francia si vide riconosciuto il
protettorato sul Marocco e la Germania fu risarcita con la
concessione di una porzione del Congo francese. Nel complesso però
la politica estera di Guglielmo II riuscì a ottenere solo un modesto
incremento dei possedimenti coloniali tedeschi, ma preoccupò gli
Stati europei che si riavvicinarono alla Francia (tra l’altro
Guglielmo II non rinnovò il trattato di contro-assicurazione tra
Germania e Russia): in tal modo la Francia riuscì a rompere
l’isolamento in cui era stata tenuta da Bismark e ad allearsi con
Inghilterra e Russia (Triplice Intesa del 1907).
LA
FRANCIA della Terza Repubblica
Dopo
l’umiliante sconfitta nella guerra franco-prussiana e l’esperienza
rivoluzionaria e tragica della Comune di Parigi, si costituì la
Terza Repubblica, guidata prima dai Repubblicani moderati, detti
“opportunisti”, e poi dai Radicali. Queste forze politiche,
espressione della borghesia illuminista e positivista, attuarono una
politica estera di grande espansione coloniale (che doveva compensare
la sconfitta del 1870) e in politica interna seguirono un
orientamento laicista e anticlericale (laicizzazione dell’istruzione,
divorzio, abrogazione del Concordato napoleonico del 1801 e
scioglimento degli ordini religiosi). La vita della Terza repubblica
fu resa difficile dall’ostilità di gruppi tradizionalisti,
monarchici, militari e clericali (che tentarono colpi di stato e
provocarono gravi crisi) e da una situazione economica sfavorevole,
aggravata da scandali politico-finanziari; d’altra parte i governi
repubblicani non attuarono una politica di riforme sociali, e
pertanto nei primi anni del Novecento si moltiplicarono anche gli
scioperi e le agitazioni operaie e il Partito Socialista francese
crebbe fino ad ottenere un grande successo nelle elezioni del 1914.
Ma l’aggravarsi della situazione internazionale e poi lo scoppio
della Grande Guerra riaccesero in Francia il nazionalismo e lo
spirito di revanche
e anche il partito socialista (nonostante l’assassinio del suo
leader Jaurès) approvò l’intervento in guerra e diede il suo
appoggio al governo e al presidente in carica, il nazionalista
conservatore Raymond Poincaré.
Fra
le crisi che minacciarono la repubblica, creando profonde divisioni
nella popolazione francese, va segnalato il “caso Dreyfus”: nel
1894 l’ufficiale dell’esercito Alfred Dreyfus, ebreo, fu
condannato ai lavori forzati per spionaggio a favore della Germania.
Il caso fu sfruttato dalle destre (clericali, monarchici,
nazionalisti) per una violenta campagna antisemita. Nel 1898 il
romanziere Emile Zola, in un celebre articolo, Je
accuse, sostenne
l’innocenza di Dreyfus e lanciò una campagna per la revisione del
processo, accusando i comandi dell’esercito e i giudici militari di
aver falsificato le prove contro Dreyfus. Secondo lo storico Villari,
“...due concezioni politiche e due ideologie si scontrarono: da una
parte si invocarono i diritti dell’individuo, la democrazia, il
rifiuto della discriminazione razziale, dall’altra l’autorità
dello Stato, l’onore dell’esercito, il prestigio e la sicurezza
della nazione”. Zola fu condannato per offese all’esercito, ma le
successive elezioni (nel 1899) vennero vinte dai repubblicani;
l’innocenza di Dreyfus fu però riconosciuta solo nel 1906 (un alto
ufficiale si era nel frattempo suicidato, dopo aver confessato la
falsificazione di una prova a carico di Dreyfus).
LA
GRAN BRETAGNA
Al
governo della Gran Bretagna, nella seconda parte del regno della
regina Vittoria, si alternarono i liberali (guidati da Gladstone) e i
conservatori (guidati da Benjamin Disraeli).
Gladstone
attuò nel 1884 un’importante riforma elettorale, che allargò
considerevolmente il suffragio, concesso a gran parte dei lavoratori
(ma non era ancora il suffragio universale), e cercò di risolvere la
questione irlandese proponendo la concessione dell’autonomia, Home
Rule, all’Irlanda
(in Irlanda la maggioranza cattolica, sfruttata dai latifondisti
inglesi e impoverita dai cattivi raccolti e dalla crisi agraria
europea, si opponeva al dominio inglese, e gruppi di estremisti
irlandesi ricorrevano anche ad azioni terroristiche). Il progetto
dell’Home Rule però fallì per l’opposizione dei conservatori e
di una parte dei liberali, e pertanto Gladstone lasciò il governo e
il paese fu governato fino al 1906 da una coalizione di conservatori
e liberali “unionisti” (cioè contrari all’autonomia
dell’Irlanda).
In
questo periodo l’Inghilterra attuò una politica imperialista, che
la portò a dominare la parte orientale dell’Africa (dall’Egitto
al Sudafrica), l’India, la Birmania; lo sfruttamento delle colonie
permise ai governi di contenere gli effetti negativi della Grande
Depressione e di attenuare i contrasti sociali.
Alla
fine dell’Ottocento presero vigore anche in Inghilterra impulsi
nazionalistici e razzistici, specie in occasione della guerra contro
i Boeri nel Sud-Africa (1899-1902), mentre la crescita economica
della Germania, la concorrenza tedesca nella produzione industriale e
la politica estera aggressiva adottata dal kaiser Guglielmo II
cominciavano a minacciare il primato economico e politico britannico.
A
partire dal 1906 furono al governo i liberali, mentre entravano in
parlamento anche i primi deputati del nuovo Partito Laburista: i
governi liberali attuarono una politica coloniale meno aggressiva
concedendo lo statuto di Dominion,
cioé una piena autonomia, alla Nuova Zelanda e al Sudafrica (dopo il
Canada e l’Australia), e realizzarono importanti riforme sociali e
politiche: giornata lavorativa di otto ore per i minatori, pensioni
di vecchiaia, politica fiscale progressiva, riduzione dei poteri
politici della camera dei Lords. In politica estera lo sviluppo della
potenza tedesca spinse i governi inglesi a porre fine allo “splendido
isolamento”, e a
superare i contrasti (per questioni coloniali) con la Francia e con
la Russia, stipulando così la Triplice Intesa (Gran Bretagna,
Russia, Francia) nel 1907.
DUE
POTENZE EMERGENTI: GLI STATI UNITI E IL GIAPPONE
Alla
metà dell’Ottocento gli Stati Uniti erano un paese in crescente
espansione, benché attraversato da forti differenze tra le diverse
zone: il Nord-Est industrializzato, il Sud agricolo e tradizionalista
nelle cui grandi piantagioni di cotone e tabacco lavoravano milioni
di schiavi neri, gli Stati dell’Ovest con una popolazione di liberi
agricoltori e allevatori di bestiame. Fino a metà del secolo la
questione della schiavitù era stata considerata di competenza dei
singoli Stati, che pertanto potevano decidere se abolirla o
mantenerla, e c’era stato un sostanziale equilibrio tra Stati
abolizionisti e Stati schiavisti; ma intorno al 1850 la costituzione
a ovest di nuovi Stati abolizionisti aveva alterato questo equilibrio
e determinato una contrapposizione tra gli Stati del Sud e quelli del
Nord e dell’Ovest. Anche i vecchi partiti politici (Democratici e
Whigs) entrarono in crisi e nel 1854 nacque il Partito repubblicano,
favorevole al protezionismo doganale invocato dagli industriali del
nord, alla distribuzione di terre demaniali ai coloni dell’Ovest e
all’abolizione della schiavitù. La vittoria del repubblicano
Lincoln alle elezioni presidenziali del 1860 fece precipitare il
contrasto, provocando la secessione degli Stati del Sud e la guerra
civile (1861-1865): il motivo della secessione e della guerra non fu
semplicemente l’abolizione o meno della schiavitù, ma il rapporto
tra il potere federale e i singoli Stati, l’estensione del potere
del governo federale e i limiti dell’autonomia degli Stati. La
vittoria degli “Unionisti” (superiori come popolazione e potenza
economica) sui “Confederati” del Sud secessionisti determinò la
liberazione degli schiavi, ma i neri continuarono a vivere in
condizioni di segregazione e di sottomissione civile ed economica
(apartheid).
Superati
i traumi della guerra civile (che fu lunga e lacerante, e provocò
600.000 morti), gli Stati Uniti vissero una stagione di intensa
crescita economica e di grandi trasformazioni sociali, sostenute
anche dal flusso migratorio. Sul piano della politica estera, gli
Stati Uniti proseguirono nel corso dell’Ottocento la colonizzazione
dell’Ovest e si attennero al loro tradizionale atteggiamento
anticolonialista e isolazionista (l’unica eccezione fu l’aiuto
dato ai repubblicani messicani contro il tentativo di egemonia
francese in Messico, nel 1864-1867).
Alla
fine del secolo lo sviluppo economico e demografico (da 40 milioni di
abitanti nel 1870 a 75 milioni nel 1900) e la necessità di nuovi
sbocchi per la produzione agricola e industriale spinsero gli Stati
Uniti ad adottare una nuova politica estera, più vicina
all’imperialismo degli Stati europei. L’imperialismo
statunitense ebbe tuttavia un carattere originale, consistendo, nella
maggior parte dei casi, più che nell’acquisizione di domini
diretti (in contrasto con la tradizione democratica e
anticolonialista americana) in forme di controllo economico e
politico.
Nel
1898 gli Stati Uniti entrarono in guerra contro la Spagna prendendo
le difese degli indigeni di Cuba che si erano ribellati al dominio
spagnolo. La Spagna fu sconfitta in pochi mesi (in tal modo si palesò
per la prima volta agli Europei la potenza militare degli Stati
Uniti) e gli Stati Uniti ottennero gli ultimi possedimenti coloniali
spagnoli: le Filippine e Portorico. Cuba ebbe l’indipendenza ma si
trovò di fatto sotto la tutela degli Stati Uniti.
Nel
1903 gli Stati Uniti avviarono la costruzione del Canale di Panama e
anche in questo caso appoggiarono una rivolta dei panamensi che portò
alla costituzione di una Repubblica controllata dagli USA.
Nel
Pacifico gli Stati Uniti conquistarono le Isole Hawai e Samoa.
Nei
primi anni del Novecento i presidenti USA Theodor Roosvelt
(repubblicano, dal 1901 al 1908) e Thomas Wilson (democratico, dal
1913 al 1921) cercarono di limitare il potere dei grandi trust e
avviarono riforme sociali.
Il
Giappone – caratterizzato da un sistema politico e sociale di tipo
feudale e da una economia quasi esclusivamente agricola - rimase
isolato e impenetrabile fino alla metà dell’Ottocento, quando fu
costretto dall’intervento militare degli Stati Uniti e di Gran
Bretagna, Francia e Russia, ad aprire relazioni commerciali e a
firmare accordi (i cosiddetti “Trattati diseguali” del 1858) che
assicuravano alle potenze occidentali ampie possibilità di
penetrazione economica. Ma l’umiliazione subìta spinse i grandi
feudatari e i samurai a una rivolta contro il vecchio sistema di
potere feudale (shogun) . La rivoluzione Mejii (1868), che intendeva
restituire potere all’imperatore, portò alla costruzione di uno
Stato più moderno e fu accompagnata da una modernizzazione
accelerata dell’intera società giapponese: una “rivoluzione
dall’alto” che coinvolse l’economia e la legislazione, il
sistema politico e i rapporti sociali. Si realizzò anche una
crescita poderosa dell’industria nipponica, favorita dal sostegno e
dall’intervento statale. In pochi anni il Giappone divenne la
maggiore potenza asiatica, dal punto di vista economico e militare, e
avviò una politica di espansione nell’Oriente asiatico,
approfittando della crisi dell’impero cinese per impadronirsi di
territori soggetti ad esso (Corea, Formosa, Manciuria).
L’espansione
giapponese finì per scontrarsi con l’espansione della Russia
nell’Estremo Oriente, e provocò una guerra tra Giappone e Russia
(1904-1905), che si concluse con la vittoria, netta e inaspettata,
del Giappone. In tal modo il Giappone fece il suo ingresso nel
ristretto numero delle grandi potenze mondiali.
L’ITALIA dal 1876 al
1914
L’epoca
compresa tra il 1876 e il 1914 fu per il regno d’Italia (governato
fino al 1876 dalla Destra storica) un periodo di profonde
trasformazioni di natura politica, sociale ed economica, connesse,
per vari aspetti, con i mutamenti in atto nello stesso arco di tempo
sul piano europeo e internazionale. Dal punto di vista politico
questa lunga fase della storia italiana può essere suddivisa in
quattro momenti:
i
primi governi della Sinistra storica, guidati, con brevi
interruzioni, da Agostino Depretis (dal 1876 al 1887)
l’epoca
crispina, a cui diede l’impronta la figura di Francesco Crispi
(dal 1887 al 1896)
la
prima crisi dello Stato liberale (la cosiddetta “crisi di fine
secolo” dal 1896 al 1900
l’età
giolittiana, dominata dalla figura di Giovanni Giolitti (dal 1901 al
1914)
a)
Nel marzo 1876 il governo della destra storica fu battuto su un
progetto di legge relativo alla statalizzazione delle ferrovie. Il
nuovo governo presieduto da Agostino Depretis segnava il definitivo
allontanamento della Destra dal potere. Con l’avvento al potere
della Sinistra storica si allargavano in qualche misura le basi dello
Stato. Tuttavia, dopo l’approvazione della legge Coppino
sull’istruzione e della riforma elettorale, gran parte del
programma riformatore della Sinistra storica fu accantonato. Con il
fenomeno del “trasformismo” (che consisteva nel costituire solide
maggioranze parlamentari a sostegno dei governi attraverso accordi,
compromessi e concessioni ai singoli deputati) il sistema politico
italiano perse il suo carattere bipartitico, finendo con l’essere
dominato da un grande centro che emarginava le ali estreme
(l’opposizione fu sostenuta solo dal gruppo, numericamente esiguo,
dei deputati della cosiddetta Estrema: radicali e socialisti). Le
principali riforme attuate in questa fase furono: la legge Coppino
che rendeva obbligatoria l’istruzione elementare (questa legge ebbe
però un’efficacia limitata nella lotta contro l’analfabetismo a
causa della povertà della popolazione rurale: infatti molte famiglie
non potevano permettersi di rinunciare al lavoro dei figli per
mandarli a scuola), l’abolizione della tassa sul macinato
(compensata però da un aumento di altre imposte e dal rincaro dei
prezzi determinato dal protezionismo doganale), l’estensione del
diritto di voto (era riconosciuto il diritto di voto a chi sapeva
leggere e scrivere, ma in tal modo furono favoriti gli abitanti delle
città e del nord, gli elettori passarono dal 2% al 7% della
popolazione), un limitato decentramento amministrativo, in quanto i
sindaci vennero resi elettivi.
In
politica estera si ebbe un mutamento di rotta con l’adesione, nel
1882, alla Triplice Alleanza (Germania, Austria e Italia): questo
mutamento di rotta fu indotto dalla conquista francese della Tunisia,
dove l’Italia aveva rilevanti interessi e numerosi coloni, che
“guastò” i tradizionali rapporti di amicizia tra Francia e
Italia.
Alla
“perdita” della Tunisia l’Italia reagì avviando la
colonizzazione dell’Africa orientale (Assab e Massaua sulla riva
del Mar Rosso), ma il tentativo di estendere i possedimenti coloniali
con la penetrazione in Etiopia fu interrotto dalla sconfitta di
Dogali (1887).
In
questi anni la crisi economica europea indusse anche il governo
italiano ad adottare il protezionismo doganale, che favorì
soprattutto l’industria pesante del nord e le grandi aziende
agrarie cerealicole. Furono invece danneggiate le colture
specializzate (agrumi, ortaggi, viti, olivi) che producevano per
l’esportazione. In generale le tariffe protezionistiche favorirono
l’avvio dell’industrializzazione nel “triangolo industriale”,
ma non risolsero i problemi del mondo agricolo e accentuarono il
divario tra l’Italia settentrionale e il Meridione.
b)
Francesco Crispi, presidente del consiglio dei ministri dopo la morte
di Depretis, ex-repubblicano e democratico, fu il fautore di uno
“Stato forte” e autoritario, sul modello del Reich tedesco
(Crispi era un grande ammiratore del Bismark); i governi Crispi
(intervallati da brevi ministeri presieduti da Di Rudinì e da
Giolitti) si caratterizzarono per alcune importanti riforme di
orientamento democratico, ma anche per un accentuato nazionalismo e
colonialismo. D’altra parte, se Crispi cercò di far evolvere il
sistema politico italiano verso una maggiore democrazia, non esitò a
reprimere duramente quei movimenti popolari che assumevano posizioni
eversive e che contestavano l’autorità dello Stato.
Le
principali riforme attuate furono la legge comunale e provinciale che
rendeva elettive le amministrazioni locali, il Codice penale
Zanardelli, che aboliva la pena di morte e legittimava lo sciopero,
la legge sull’assistenza pubblica con cui lo Stato per la prima
volta assumeva il compito della difesa della salute e dell’assistenza
sociale (nel quadro di questa riforma vennero statalizzati istituti
assistenziali e ospedalieri della chiesa cattolica, e in tal modo fu
confermato l’indirizzo politico anticlericale dei governi del Regno
d’Italia).
Nel
periodo crispino si moltiplicarono i segni di una vasta crisi
sociale, alimentata anche dalla depressione economica e dalla crisi
finanziaria (che provocò il fallimento di importanti banche e portò
alla luce diffusi fenomeni di corruzione). In questo quadro si
verificò una considerevole ascesa del movimento socialista, giunto
alla fondazione del Partito dei Lavoratori (nel 1892) ,
successivamente denominato Partito Socialista italiano, nel quale
confluirono tendenze riformiste e tendenze rivoluzionarie. Anche
l’organizzazione del movimento cattolico si sviluppò
considerevolmente, soprattutto in campo sociale (leghe, sindacati,
associazioni, cooperative ecc.) e nelle realtà locali, mentre
restava in vigore per i cattolici il divieto pontificio (Non
expedit) di
partecipare alle elezioni e alla vita politica. Le difficoltà
economiche e le tensioni sociali giunsero all’apice nei moti della
Lunigiana (agitazioni dei cavatori di marmo) e dei Fasci siciliani
(leghe di contadini e minatori siciliani rovinati dalla crisi
economica e dal protezionismo). Crispi reagì ai moti adottando
pesanti misure repressive (legge marziale in Sicilia, scioglimento
del Partito socialista, limitazioni della libertà di stampa e di
associazione), ma cercò anche di modificare i rapporti sociali
accogliendo le istanze dei lavoratori; pertanto propose una legge che
avrebbe ridotto i latifondi in Sicilia, a vantaggio dei contadini, e
che avrebbe modificato i contratti tra proprietari e contadini, in
senso favorevole a questi ultimi. Questa legge però fu respinta dal
Parlamento (per effetto del voto censitario i proprietari vi erano
rappresentati assai più dei lavoratori).
In
politica estera Crispi confermò l’adesione dell’Italia alla
Triplice alleanza, l’amicizia con la Germania e l’atteggiamento
antifrancese (il protezionismo provocò una “guerra doganale” con
la Francia, con gravi danni per la viticoltura meridionale e per le
zolfatare siciliane); inoltre riprese la politica di espansione
coloniale in Africa orientale, costituendo la colonia Eritrea. Nel
1896, Crispi cercò di riguadagnare il favore dell’opinione
pubblica (critica nei confronti del governo per la crisi economica e
sociale e per le dure repressioni) con una grande conquista
coloniale, e attaccò l’Etiopia, ma l’esercito italiano subì una
tragica disfatta ad Adua. Crispi, travolto dalle critiche popolari e
parlamentari, dovette dimettersi.
c)
Negli anni dal 1896 al 1900 la crisi economica e sociale si aggravò:
l’aumento del prezzo del pane suscitò manifestazioni di protesta
in tutta l’Italia, a cui il governo reagì con spietate
repressioni: a Milano nel 1898 l’esercito prese a cannonate la
folla dei dimostranti provocando un centinaio di morti, i capi del
Partito socialista e del movimento cattolico furono arrestati;
inoltre il governo cercò di far approvare dal parlamento leggi che
limitavano la libertà di stampa, di associazione e di riunione, ma
in questa occasione si costituì un’alleanza fra socialisti,
democratici (radicali e repubblicani) e liberali di sinistra (tra i
quali Giolitti e Zanardelli), che riuscì a impedire l’approvazione
delle leggi liberticide.
d)
Nell’anno 1900 le elezioni politiche furono vinte dalle opposizioni
(liberali di sinistra, democratici, socialisti) e determinarono una
svolta politica, cioé l’abbandono della prassi autoritaria e
repressiva dei governi di fine Ottocento: questa svolta fu favorita
anche dal miglioramento della situazione economica internazionale.
L’assassinio del re Umberto I da parte dell’anarchico Bresci (che
intendeva vendicare la strage di Milano del 1898) non frenò il nuovo
indirizzo della politica italiana, che fu approvato dal nuovo re
Vittorio Emanuele III e che fu interpretato dai capi di governo
Zanardelli (1901-1903) e Giolitti (ministro dell’interno con
Zanardelli e poi capo del governo – salvo brevi intervalli – dal
1903 al 1914). In effetti il liberale Giovanni Giolitti dominò la
politica italiana in questa prima parte del nuovo secolo che pertanto
vien chiamata “età giolittiana”.
In
primo luogo Giolitti assunse un atteggiamento di neutralità nei
conflitti sociali: egli era convinto che il governo dovesse rimanere
imparziale tra datori di lavoro e lavoratori e non dovesse quindi
intervenire per reprimere scioperi e manifestazioni, fin quando non
venisse minacciato l’ordine pubblico; questo atteggiamento favorì
lo sviluppo delle organizzazioni sindacali e l’aumento degli
scioperi, con la conseguenza di un incremento dei salari operai e
agricoli.
In
secondo luogo attuò riforme per far evolvere in senso democratico il
sistema politico italiano e per favorire lo sviluppo economico
dell’Italia, anche con un miglioramento delle condizioni di vita
dei ceti popolari; per attuare il suo programma di riforme egli cercò
di coinvolgere anche le forze politiche e sociali che per ragioni
storiche e ideologiche erano “nemiche” del liberalismo, vale a
dire il Partito socialista e il movimento cattolico: Giolitti fece
importanti concessioni a queste forze per ottenerne l’appoggio,
tuttavia mantenne saldamente il potere nelle proprie mani, tanto che
si parlò di “dittatura” di Giolitti, realizzata attraverso il
controllo del Parlamento (anche con pratiche trasformistiche e
clientelari) e l’intervento del governo nelle competizioni
elettorali, soprattutto al Sud.
Nei
primi anni di governo Giolitti si rivolse al Partito socialista, che
in quegli anni era guidato da Filippo Turati e dalla corrente
riformista o “minimalista”: Turati rifiutò l’offerta di
entrare a far parte del governo ma diede il suo appoggio alle riforme
giolittiane: leggi speciali per il Meridione, statalizzazione delle
ferrovie, legislazione sul lavoro (riposo festivo, divieto del lavoro
notturno per donne e bambini ecc.), monopolio statale sulle
assicurazioni per la vita, con i cui proventi si dovevano finanziare
le pensioni e le assicurazioni contro gli infortuni, suffragio
universale maschile, introdotto dalla legge elettorale del 1912 (le
prime elezioni con il suffragio universale furono quelle del 1913).
La
politica di riforme sociali e di collaborazione con i socialisti fu
favorita, oltre che dal riformismo dei socialisti, dalla favorevole
congiuntura economica internazionale, che consentì una forte
accelerazione dello sviluppo industriale italiano; il “decollo”
dell’industria italiana non ridusse il divario con i paesi più
ricchi, ma produsse comunque un aumento del reddito e del tenore di
vita degli italiani. Tuttavia questo sviluppo industriale avvenne
soprattutto nell’Italia settentrionale e non modificò le
condizioni di arretratezza e di povertà del Meridione; le leggi
speciali per il Mezzogiorno (con cui furono costruite opere
pubbliche, come l’acquedotto per la Puglia, e furono concesse
agevolazioni fiscali al Sud) non intaccarono il sistema agrario del
Mezzogiorno dove i latifondisti, difesi dalla concorrenza estera dal
protezionismo doganale, puntavano più sullo sfruttamento dei
contadini che sulla modernizzazione delle aziende. Pertanto le masse
rurali meridionali non beneficiarono della crescita economica
italiana e il fenomeno dell’emigrazione continuò, e s’intensificò,
anche nel decennio giolittiano. Oltre tutto Giolitti, per ottenere
voti nel Sud, ricorse anche alla corruzione e al clientelismo e fu
accusato di essere in rapporto con le organizzazioni criminali del
Sud (il meridionalista Gaetano Salvemini definì Giolitti “ministro
della malavita”).
Sul
piano della politica estera l’Italia giolittiana si riavvicinò
alla Francia, pur restando fedele alla Triplice Alleanza. Nel
frattempo si modificò l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei
confronti delle conquiste coloniali, che cominciarono ad essere
richieste soprattutto dal nuovo movimento nazionalista. Giolitti fu
spinto alla conquista della Libia dalla campagna di stampa dei
nazionalisti, dalle pressioni della corte e dell’esercito, dagli
interessi di alcuni gruppi industriali e della finanza cattolica
(Banco di Roma). Venne dichiarata guerra all’Impero turco, a cui
apparteneva la Libia, e il territorio libico fu conquistato
nonostante la strenua resistenza opposta dagli indigeni (berberi); la
pace di Losanna (1912) assegnò all’Italia la Libia e le isole del
Dodecaneso.
La
conquista della Libia dimostrava che l’Italia si era notevolmente
rafforzata sul piano economico e militare dal 1896 (disfatta di
Adua), ma non recò benefici economici all’Italia (era, secondo la
definizione di Salvemini, “uno
scatolone di sabbia”);
invece ne uscì indebolita la politica liberal-progressista di
Giolitti: infatti si rafforzarono il movimento nazionalista e le
tendenze antidemocratiche che avevano cominciato a svilupparsi in
Europa agli inizi del Novecento; inoltre la guerra di Libia determinò
la vittoria, all’interno del Partito socialista, della corrente
rivoluzionaria o “massimalista”, che rifiutava ogni forma di
collaborazione con Giolitti e in genere con lo Stato liberale
(infatti la guerra per la Libia era stata condannata dal Partito
socialista, ma alcuni socialisti revisionisti,
cioè simpatizzanti del “revisionismo” di Bernstein, l’avevano
approvata, e quindi erano stati espulsi dal Partito; con la loro
uscita dal partito però la corrente moderata, riformista, era
diventata minoritaria, e quindi i massimalisti -rivoluzionari,
antigiolittiani, antimonarchici, antiparlamentari - avevano assunto
la direzione del Partito).
Le
elezioni del 1913, a suffragio universale maschile, presentavano
dunque grossi rischi per i liberali e per Giolitti: i ceti popolari,
ammessi per la prima volta al voto, avrebbero potuto determinare un
grande successo del Partito socialista (massimalista e
antigiolittiano, come abbiamo detto); per evitare questa evenienza
Giolitti strinse un accordo con i cattolici, noto come “Patto
Gentiloni”.
Per
capire i termini di questo accordo ripercorriamo la storia del
movimento cattolico in Italia: nel 1864 il papa Pio IX aveva
condannato il liberalismo (con il Sillabo) e nel 1870, dopo la
conquista di Roma da parte del Regno d’Italia, aveva vietato ai
cattolici di partecipare alle elezioni politiche (“non expedit”)
per manifestare così il dissenso rispetto allo Stato italiano
usurpatore dei diritti della Chiesa. La politica anticlericale, le
espropriazioni di beni ecclesiastici, ma anche l’oppressione dei
ceti popolari attuata dai governi del Regno, alimentarono il
contrasto tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano. Il papa Leone
XIII (succeduto a Pio IX nel 1878) assunse un atteggiamento più
conciliante nei confronti degli Stati liberali e nel 1891 pubblicò
l’enciclica Rerum Novarum, con cui la Chiesa cattolica prendeva
posizione sul problema sociale: la Rerum Novarum affermava il diritto
naturale alla proprietà, e condannava quindi il socialismo, sia
perché esso negava tale diritto, sia perché propugnava la lotta di
classe, anche violenta, come soluzione dei problemi sociali. La Rerum
Novarum affermava però che la proprietà privata comportava dei
doveri sociali (quindi il profitto non doveva essere l’unico fine e
valore dell’attività economica), condannava lo sfruttamento
economico dei proletari, approvava l’intervento dello Stato
nell’ambito economico-sociale per tutelare le classi più deboli,
riconosceva il diritto dei lavoratori di associarsi per difendere i
propri interessi, proponeva la collaborazione tra lavoratori e
padroni in vista del “bene comune”. Tale enciclica proponeva
quindi una dottrina sociale cattolica che, pur essendo molto distante
dalle teorie socialiste, contestava anche i principi del liberismo ed
esprimeva una visione solidaristica e sensibile al disagio dei ceti
popolari. L’effetto immediato della Rerum Novarum fu quello di
incoraggiare e sostenere l’associazionismo cattolico: si venne così
formando un vasto movimento cattolico costituito da sindacati,
associazioni, leghe, cooperative, banche ecc.; nell’ultimo
decennio dell’Ottocento le organizzazioni sindacali del movimento
cattolico entrarono in concorrenza con le organizzazioni socialiste e
difesero attivamente i diritti dei lavoratori, subendo anche le
repressioni governative (nel 1898, dopo i moti di Milano, seimila
associazioni cattoliche furono accusate di sovversivismo e sciolte
dal governo, e il leader cattolico don Davide Albertario fu
arrestato, insieme al socialista Turati, e condannato a tre anni di
carcere). Il movimento cattolico era però presente solo a livello
sociale, mentre non esisteva, a causa del “non expedit”,
un’attività e un’organizzazione politica dei cattolici. Un
tentativo di formare un partito dei cattolici venne attuato nei primi
anni del Novecento da don Romolo Murri, che fondò la Democrazia
Cristiana, questo tentativo però naufragò per l’opposizione del
nuovo papa Pio X (1903-1914) (don Murri, fra l’altro, venne
condannato per il suo “modernismo” teologico, considerato
incompatibile con la dottrina cattolica); comunque Pio X sospese il
“non expedit”, e in tal modo consentì l’elezione dei primi
deputati cattolici, ma soprattutto rese possibile il “patto
Gentiloni”.
Il
Patto Gentiloni (che prese il nome dal presidente dell’Unione
elettorale cattolica) prevedeva che i cattolici avrebbero votato per
quei candidati liberali che si impegnavano a non fare una politica
anticlericale e a non promuovere leggi sgradite alla Chiesa, come
p.e. il divorzio: tale impegno fu sottoscritto da moltissimi
candidati liberali e in tal modo i liberali, grazie al voto dei
cattolici, ebbero ancora la maggioranza in Parlamento, anche se ci fu
una certa crescita dei deputati socialisti. Molti dei liberali
eletti però erano conservatori, piuttosto distanti dal liberalismo
progressista di Giolitti; pertanto Giolitti, avvertendo di non avere
una solida maggioranza, preferì lasciare la guida del governo
(1914).
Il
nuovo capo del governo fu il liberale conservatore Antonio Salandra.
La situazione politica e sociale tendeva nuovamente a radicalizzarsi:
alla sinistra rivoluzionaria si contrapponeva la destra
liberal-conservatrice. Un sintomo evidente di questo nuovo clima fu
la “settimana rossa” che scoppiò in Romagna e nelle Marche nel
giugno 1914: un’ondata di scioperi e di agitazioni che assunse un
carattere apertamente insurrezionale (con violenze, sabotaggi,
assalti a edifici pubblici), e che fu repressa con l’impiego di
100.000 soldati. Un mese dopo scoppiava la Grande Guerra e si poneva
il problema della partecipazione italiana, che avrebbe suscitato
nuovi contrasti e divisioni.